16ª Festa del Cinema di Roma – Favino e gli appuntamenti mancati del destino, l’omaggio di Zhang Yimou al cinema e il segreto della futura scrittrice
La Festa accoglie Quentin Tarantino, mentre sugli schermi passano interpretazioni di lusso: Pierfrancesco Favino, Colin Firth, Olivia Colman
Selezione Ufficiale
PROMISES (Les promesses)
film, Italia 2021, durata 113’. Regia: Amanda Sthers.
ONE SECOND (Yi miao zhong)
film, Cina 2021, durata 105’. Regia: Zhang Yimou
Tutti ne parlano
MOTHERING SUNDAY
film, Gran Bretagna 2021, durata 110’. Regia: Eva Husson
Ancora non è sbollita la febbre per la passerella di Johnny Depp, e già è il giorno dell’attesa feticistica di Quentin Tarantino, che riceverà dalla Festa un premio alla carriera; ma frattanto concederà una conferenza stampa ovviamente da tutto esaurito. Come ieri, all’esterno schieramento nutrito di forze dell’ordine (stavolta ad arginare sani entusiasmi); ali di cinefili duri e puri ma anche di curiosi – ma qui rispetto a Depp cala l’elemento femminile a favore di quello maschile, più dedito al culto del Maestro – ai due lati del tappeto rosso fin dall’ora di pranzo per una passerella attesa per le 18; fibrillazione del personale tutto.
E intanto in sala passano One Second – l’ultima pellicola di un altro Maestro, Zhang Yimou; Promises, la produzione italo-francese interpretata dall’ormai star internazionale Pierfrancesco Favino; e Mothering Sunday, film inglese dal gran cast.
Andiamo a incominciare.
“Promises”
Raccoglierete in giro commenti prevalentemente negativi su questo titolo. Dicono che coinvolge poco, che non si sta dietro ai continui salti temporali (espediente di movimentazione e mistero – ahimé questo sì – sempre più abusato nel cinema), che il cocktail linguistico parlato dai personaggi contribuisce allo spiazzamento dello spettatore.
Porto in controcanto la mia testimonianza: il film mi ha preso, e vi dico perché.
Racconta con la giusta sospensione, e la malinconia del filtro della memoria, l’incontro fatale tra un uomo e una donna (altro ottimo Favino, e giusta nella parte Kelly Reilly già fattasi conoscere nelle serie tv True Detective, Yellowstone, Britannia). Ma quell’incontro non sfocia mai in un passo definitivo e neanche in un’aperta confessione d’amore: perché le improvvise svolte della vita dell’uno o dell’altro fanno da sliding doors, rimandando sempre più avanti quel futuro che i due, in un modo o nell’altro, si erano, senza dirselo, promessi.
Il film ci dice che così può passare un’intera vita, inseguendo qualcosa che non abbiamo la forza, il coraggio di afferrare e difendere. Ci dice che ci vuole tempismo a saltare sul treno che passa e potrebbe non più tornare; anche se il destino può metterci la sua. Ci ricorda che la malìa di un incontro, se non portato a compimento, rischia di spiaggiare definitivamente in un limbo senza ritorno le esistenze di due persone perbene, che stavano vivendo vite sentimentali con l’onesta intenzione di portarle avanti.
E ancora, in Promises ci trovo la celebrazione di un’amicizia virile che attraversa tutte le fasi della vita. Ci trovo uno sguardo attento, portato su particolari, gesti, dettagli che raccontano più delle parole.
Certo, qua e là qualche simbologia fumosa, qualche eccesso d’espressione di Favino, aggiungono troppe spezie. Ma sta di fatto che, uscito di sala, sono tornato a pensare al film e agli scherzi della vita; non è poco.
“One Second”
Se proprio voglio aggravare il mio caso continuando a remare controcorrente, allora lasciatemi dichiarare che quest’ultimo lavoro, One Second, di Zhang Yimou, l’acclamato maestro cinese, può lasciare indifferenti; anzi, un po’ annoiare. Sarà la difficoltà ad entrare nella poetica di quei paesi, sarà che non riesco ad apprezzare l’estenuante tira e molla che il protagonista maschile ingaggia con la ragazzina-scugnizza intorno a una bobina di pellicola per tutta la prima ora del film, sarà che mostrarci un minuto di camminata da A a B senza che questa contenga elementi utili alla storia, quando un secolo di cinema ha messo a punto l’arte del montaggio; sta di fatto che per me tutto ciò che ne resterà sono le sequenze – 10 minuti da cineteca – del salvataggio corale (lavaggio da polvere e fango, e asciugatura) di un’intera pellicola, ad opera di un pubblico eterogeneo e impaziente di poterne godere la proiezione in un luogo (una sperduta provincia) e in un tempo (la Cina di Mao) per i quali costituisce un vero evento.
“ Un grande omaggio al cinema”, dicono. Ne abbiamo visti di migliori, al di qua e al di là dell’Atlantico.
“Mothering Sunday”
Le cameriere in Inghilterra godono di un giorno di permesso in occasione della Festa della Mamma, per andare a trovare la propria. Siamo nel 1924; la giovane e bella Jane, a servizio in una ricca magione di campagna, è una trovatella e lo usa altrimenti: per un incontro clandestino col ricco rampollo di un’importante famiglia del vicinato, destinato dai genitori ad altri apparentamenti. Non è prosaico amore ancillare, ma un sentimento profondo per entrambi. Le due famiglie nel frattempo sono fuori, per una giornata di picnic.
Il film, coi soliti andirivieni temporali imprescindibili a quanto pare nel cinema di questi anni, si snoda attraverso i flashback prossimi e remoti dei protagonisti; che Jane, diventata anni dopo scrittrice di successo, trasforma in un libro.
Un film calligrafico, come si addice all’ambientazione e al traino di storie recenti di successo, in primis Downton Abbey. Nobilitato dalla raffinata presenza di attori del calibro di Colin Firth (Il discorso del Re, Supernova) e Olivia Colman (The Crown, The Father, La favorita) e dal cammeo di Glenda Jackson.
Eppure lascia freddi, forse per eccesso di forma: tutte quelle carrellate d’interni, quell’insistenza nell’esplorazione dei corpi nudi dei due amanti, quei dettagli estetizzanti fotografati attraverso lame di sole… Ed anche per averci voluto infilare l’ormai obbligatoria timbratura di cartellino: cambiar colore al compagno della lei-scrittrice facendolo afroamericano, diversamente dal romanzo da cui il film è tratto, e a dispetto della palese incongruenza ambientale. Ma d’altro canto, se di colore può essere la regina d’Inghilterra e parte della sua corte (vedi Bridgerton), che sarà mai?