Ai figli solo il cognome delle madri: quello che va attaccato è l’elemento maschile
Secondo questa nuova prospettiva ciò che va attaccato sistematicamente è l’elemento maschile. Accusato di essere votato alla sopraffazione

Tranquilli, ma non troppo. Per ora, infatti, si tratta solo di una proposta di legge. Anzi, dell’annuncio di una proposta di legge. Che il suo artefice, il senatore PD Dario Franceschini, ha “spiegato” con un post pubblicato su X.
“Ai figli solo il cognome della madre. Anziché creare infiniti problemi con la gestione dei doppi cognomi o con la scelta tra quello paterno o materno, dopo secoli in cui i figli hanno preso il cognome del padre, stabiliamo che dalla nuova legge prenderanno solo quello della madre. È una cosa semplice e anche un risarcimento per un’ingiustizia secolare che ha avuto non solo un valore simbolico, ma è stata una delle fonti culturali e sociali delle disuguaglianze di genere.”
La prima tentazione, perfettamente comprensibile, è quella di liquidare la sortita in malo modo. Giusto un centimetro o due prima del turpiloquio, per evitare querele.
Della serie: non c’era niente di più sostanziale di cui occuparsi?
Oppure: sì, vabbé, per mettere fine a una discriminazione al maschile ne imponiamo una al femminile. Come se il rimedio a un eccesso fosse un altro eccesso di segno contrario.
A vederla così sono in moltissimi. Sia tra gli utenti online, sia tra i politici, i giuristi e gli altri commentatori interpellati dai media.
Una rapida carrellata la trovate qui. Ma il ventaglio è molto più ampio e il filo conduttore, anche sul versante dell’opposizione, è che la sortita ha suscitato molte più perplessità che adesioni. Persino il Manifesto, che si ostina a definirsi “quotidiano comunista”, ha parlato senza mezzi termini del “pasticcio del Pd sul cognome materno”.
Discorso chiuso, quindi? Nulla di più che una “boutade”, come l’hanno definita tanto la senatrice M5s Alessandra Maiorino quanto il presidente della Fondazione per la Natalità Gigi De Palo?
Niente affatto.
Pillole per estremisti
Sullo sfondo c’è l’enorme e irrisolto/irrisolvibile problema del Pd: appiattito su posizioni tiepide e scarsamente identitarie, che si risolvono nell’appoggiare di continuo le linee guida della Commissione Europea, non riesce a scaldare i cuori di chi potenzialmente potrebbe votarlo. Né, tantomeno, ad affermarsi come asse portante di una stabile coalizione antigovernativa.
In questa situazione, che l’avvento di Elly Schlein alla guida del partito ha tutt’altro che superato (vedi il recente voto sul ReArm Europe, con gli eletti a Bruxelles che contraddicono le indicazioni della segretaria), l’unica chance di raccogliere consensi sta nel gettare delle esche diversificate. Nella speranza che quanti più elettori possibile si accontentino di uno specifico fattore di identificazione e sorvolino sul resto.
La sparata di Franceschini rientra perfettamente in quest’ottica. Lui per primo sa benissimo che la sua proposta è destinata ad arenarsi: sia perché in Parlamento la maggioranza di centrodestra la bloccherà, sia perché la misura è altrettanto incostituzionale dell’obbligo di attribuire ai figli il cognome paterno.
Ma quella che a prima vista potrebbe sembrare una totale sciocchezza si presta a una lettura alternativa: una mossa in chiave non già legislativa ma elettorale. Un dolcetto a chi deve accontentarsi di queste pseudo rivoluzioni, dopo che quelle di un tempo sono state accantonate per sempre.
Non solo. La questione è ancora più complessa. E sarà il caso di ricordare, preliminarmente, che lo stesso Franceschini è un politico di lungo o lunghissimo corso. Nato nel 1958 e già esponente di spicco di quel Partito Popolare Italiano che nacque sulle ceneri della DC travolta dalle inchieste di Tangentopoli, è poi transitato nella Margherita ed è infine approdato, da membro fondatore, nel PD.
Checché se ne pensi, di sicuro non è un ingenuo.
Qui, ma non ora
A molti sfugge. Ed è un errore gravissimo.
La politica non va affatto ridotta alla sola attualità. Ossia a ciò che essa mostra di giorno in giorno.
Benché sia indubbio che gran parte di ciò che viene detto o fatto dai politici di mestiere è legato alle sollecitazioni del momento – con innumerevoli aggiustamenti tattici che poi, non di rado, si traducono in contraddizioni di ogni sorta e in contorsioni anche risibili – questo è solo lo strato superficiale.
Accanto e oltre gli opportunismi a scartamento ridotto ci sono disegni più sottili. E quindi più insidiosi.
Disegni che mirano a modificare il pensiero collettivo su questo o quell’aspetto della vita economica e sociale e che, nel caso dei progressisti, mirano innanzitutto a sgretolare le identità tradizionali.
Abbandonata la vecchia lotta di classe teorizzata da Marx, per le Sinistre (o sedicenti tali) il nemico pubblico numero uno è cambiato. Ha smesso di essere il capitalismo, con il quale è di gran lunga più conveniente essere in buoni rapporti, ed è diventato il cosiddetto patriarcato. Che viene presentato/spacciato come la causa prima di tutte le ingiustizie e disuguaglianze. Nonché il presupposto, il Dna malato da modificare geneticamente, delle guerre passate, presenti e future.
Secondo questa nuova prospettiva, quindi, ciò che va attaccato sistematicamente è l’elemento maschile. Accusato di essere intrinsecamente votato alla sopraffazione. Messo all’indice con la definizione, sempre più ricorrente, di “mascolinità tossica”.
Il percorso è lungo. Le fughe in avanti, anche quelle che appaiono più forzate e inverosimili, sono un investimento sul futuro. In base allo schema, ormai classico, della “finestra di Overton”.
Prendi un concetto che sembra del tutto inaccettabile e già così, per il fatto stesso di averne cominciato a parlare, inizi a renderlo più familiare. O meno estraneo. Meno tabù.
Potrà volerci del tempo. Magari molto o persino moltissimo. Ma il seme è stato gettato. E la pianta, infestante, finirà con il crescere. O addirittura col dilagare.
Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia