Alle elementari c’è chi vorrebbe tornare al grembiule
Il Ministro degli Interni propone di introdurre il grembiule nella scuola elementare. In molti casi c’è già. Il problema è la scuola, non il grembiule
Bianco o rosa per le bambine con fiocco bianco o blu e azzurro o blu, con fiocco bianco per i bambini. Questa è l’uniforme che ricordiamo aver indossato alle scuole elementari quando felicemente le frequentavamo e questo è quello che si indossa in quelle scuole che lo prevedono. Attualmente, in assenza di disposizioni obbligatorie, ogni singolo istituto si regola come crede. Quando lo si prevede lo si fa per una questione di igiene, perché i bambini tendono a sporcarsi molto giocando con pennarelli e matite, come noi facevamo con l’inchiostro e il pennino. Già nel 2008 l’allora ministro della Pubblica Istruzione Maria Stella Gelmini, quella che pensava che il CERN di Ginevra fosse in collegamento sotterraneo con il centro di Ricerca del Gran Sasso, voleva rendere obbligatoria l’uniforme alle elementari. Poi il deputato Luca Volonté (Udc) propose la stessa cosa ma, in entrambe i casi , non se ne fece di niente, per via del costo eccessivo. La proposta prevedeva un incentivo economico agli istituti nella misura di 15 milioni di euro. Si preferì risparmiare. Se Gigi Di Maio sapesse che deve spendere 15 milioni per i grembiulini, piuttosto chiuderebbe le scuole. Si dice che il grembiule avrebbe una funzione egualitaria eliminando la differenza tra bambini vestiti con capi costosi e bambini poveri. Certo questo non è un concetto sbagliato. Sarebbe il caso di cominciare a spiegare ai sindaci che questa odiosa divisione tra chi ha e chi non può, si potrebbe già superare dando la disponibilità di accedere alle mense scolastiche anche ai bambini meno abbienti, come ha imposto il Tribunale di Milano alla Sindaca di Lodi, Sara Casanova, tempo fa.
La scuola italiana ha bisogno di ben altro che le divise
Grembiulini o non grembiulini, che decidano gli Istituti, con l’assenso dei genitori cui, molto concretamente, toccherà spendere i soldi per la divisa in doppia tenuta per ogni allievo. Se la questione vi sembra rilevante, a me per niente, o meglio lo sembra soprattutto perché mette in luce la disperata situazione delle nostre scuole. Dove ci si preoccupa per i crocifissi alle pareti ma non delle pareti e dei tetti che possono venire giù. Spesso le scuole sono a rischio di stabilità, con pericolo di crolli, soprattutto nelle zone sismiche. Un problema che non costerebbe solo 15 milioni di euro per la sua soluzione ma che mi pare più importante delle divise. Però questa potrebbe essere un’ottima occasione per vedere cosa si potrebbe proporre per la nostra scuola, pensando al futuro dei nostri figli. Non voglio fare voli pindarici ma molto concretamente proporvi il confronto con due sistemi scolastici molto diversi e molto più avanti del nostro per motivi opposti. Quello giapponese e quello finlandese.
In Giappone uniformi obbligatorie
In Giappone l’istruzione è gratuita e obbligatoria dai 6 agli 11 anni. L’alfabetizzazione è del 99%. Per una famiglia giapponese è importante che il figlio frequenti una buona scuola, sia essa anche lontana da casa, perché lo prepari al meglio per la vita. Le mamme giapponesi amano davvero i loro figli e non vogliono farne degli inetti, come altre mamme che conosciamo bene. I cicli scolastici prevedono la scuola materna dai 3 ai 6 anni, la elementare fino ai 12 anni, la media inferiore fino ai 15, la superiore fino ai 18 e il College o Università di quattro anni in genere. Lasciamo stare l’Università che è molto più dura e concreta della nostra. Figuratevi se i Giapponesi non avevano delle uniformi obbligatorie. Certo che le hanno. Non solo alle elementari ma anche alle medie e fino ai 18 anni! I ragazzi indossano giacche nere con bottoni d’ottone e colletti rigidi. Le ragazze divise blu con gonne a pieghe e calzettoni. Tuttavia la forma e il colore possono cambiare da scuola a scuola. Siamo al paradosso che in certi casi si sceglie la scuola in base alla divisa. Nei 45’ di pausa o ricreazione si mangia tutti insieme nell’aula o nella mensa, se c’è. Una parte del cibo viene da casa e una seconda parte si cucina e si acquista nell’istituto. Alle elementari questa ora è utilizzata per insegnare ai bambini le basi della nutrizione e l’importanza del cibo per la salute.
Perché non insegniamo la “dieta mediterranea” nelle elementari?
Noi, che siamo il paese delle 20 gastronomie regionali, il più famoso al mondo per la sua cucina e per il Made in Italy alimentare invece no, non insegniamo un bel niente ai ragazzi che mangiano “pop corn” al cinema, merendine e patatine fritte, bevendo bibite zuccherate e gassate che li rendono obesi. Forse il Ministro dell’Agricoltura Gian Marco Centinaio potrebbe trarre ispirazione dalla esperienza giapponese per proporre un’ora di educazione alimentare e una maggiore conoscenza dei nostri prodotti e della dieta mediterranea. Si dice sempre che la scuola dovrebbe educare i nuovi cittadini e poi che si propone? Approfitterei della presenza di bambini di diversa etnia nelle nostre scuole per organizzare un bel corso sulle cucine nel mondo, un buon modo per conoscere le altrui culture ed apprezzarne la civiltà, invece di ignorarle e viverle come minacciose. In questo senso c’è già disponibile la conoscenza enciclopedica di Vittorio Castellani, noto come Chef Kumalé, esperto delle gastronomie di tutto il pianeta.
La pulizia nella scuola giapponese
Gli allievi delle scuole giapponesi sono responsabili della pulizia delle loro scuola, in Giappone non esistono bidelli. Doppio risparmio! Ogni giorno parte del tempo scolastico viene destinato a pulire aule, corridoi e bagni! Io mi immagino i lettori italiani che hanno figli alle elementari mentre leggono queste righe. Un soprassalto! Mio figlio che pulisce i bagni a scuola? Se venisse introdotta questa norma ci sarebbe una sollevazione popolare e colui che la propone di sicuro non verrebbe rieletto. Eppure questa mi pare una norma egualitaria molto più importante del grembiulino uguale per creare il cittadino responsabile di domani.
Finlandia: al centro c’è il bambino non il programma
É ritenuto uno dei sistemi scolastici migliori al mondo. Non esito a crederci. Vediamo perché. I bambini finlandesi vanno a scuola come tutti ma è la scuola che è diversa. L’età dell’obbligo inizia a sette anni e dura nove anni, fino ai 16. Dopo i ragazzi decidono se proseguire oppure passare all’istituto professionale, che ti avvia a un mestiere e anche a corsi universitari specifici per quella professione. La media dei laureati in Finlandia è del 45%, in Italia del 22,4% la più bassa in Europa (Eurostat 2013). Ho detto tutto.
Fino ai sei anni la maggior parte dei bambini finlandesi frequenta la scuola materna, gli altri restano a casa con la famiglia. A 6 anni sono i genitori che scelgono se far frequentare ai propri figli la “esikoulu”, in cui si trascorre un anno, prima dell’inizio della scuola elementare. Metà della giornata è impiegata in attività scolastiche. Nell’altra metà si svolgono le attività ludiche tipiche di un asilo.
In Finlandia non esistono scuole private. Tutte le scuole dell’obbligo sono pubbliche. Tutti i bambini frequentano le stesse scuole senza differenza di censo, etnia, origini, colore degli occhi o dei capelli, che sono tutti biondi! Il figlio di Giovanni Conte sta in classe con Mario Rossi operaio Italsider, e quello di Carlo Conti sta assieme a quello di Maria Bianchi commessa dell’Upim. Nessuno sceglie scuole speciali, non esistono. Neanche per bambini con problemi di apprendimento o di comunicazione. La chiamano la scuola della domanda, perché si preferisce che i ragazzi chiedano, piuttosto che dare loro risposte preconfezionate, imponendo l’apprendimento mnemonico. Il docente ascolta e osserva, indirizza, aiuta, non impone, non rimprovera, non punisce. Si impara facendo ogni giorno, fino a 13 anni e non ci sono voti!
La preparazione degli insegnanti è fondamentale per una vera scuola
Questo tipo di sistema è reso possibile in primis dal fatto che tutti gli insegnanti ricevono un’ottima formazione: tutti devono studiare all’università, anche chi lavora nelle scuole materne. A partire dalla prima classe della scuola elementare la qualifica minima per insegnare è la laurea magistrale in teacher training. Chi lavora a contatto coi minori deve avere un’ottima e solida educazione. La selezione è elevata: su circa 6000 matricole l’anno soltanto il 10% ottiene il posto. In Finlandia ci si fida degli insegnanti come noi ci fidiamo del dentista o del chirurgo. In Finlandia nessun genitore andrebbe a menare all’insegnante di suo figlio. Primo perché non ci sono bocciature e voti negativi e secondo perché non ci capirebbe nulla su quello che studia il figlio.
Le scuole sono organizzate in modo che i ragazzi con disabilità o con bisogni speciali vengano inclusi in tutte le attività. Hanno classi dedicate e super attrezzate, all’interno delle scuole comuni, con docenti ed educatori dedicati a sviluppare programmi personalizzati, ma al contempo lavorano con i compagni in alcune discipline e a turno i questi ultimi lavorano con loro. L’insegnamento di sostegno in Finlandia è unico al mondo perché si basa sul riconoscimento delle reali difficoltà di apprendimento, sulla loro evoluzione e prevenzione piuttosto che sulle cause mediche. È affiancato da psicologi, medici, consulenti, assistenti sociali e altre figure.
Non esistono le classi, si lavora in gruppi spontanei, che si formano e si sciolgono in base all’interesse dei singoli. Lo studente che vuole approfondire o sviluppare una sua particolare disposizione lo può fare liberamente. Anzi è invogliato a sviluppare le sue capacità e tendenze e non gli viene imposti un programma precostituito. Questa metodologia favorisce la socializzazione e l’inclusione.
Non esistono bocciature. Si cresce insieme aiutandosi.
Secondo la legge ogni studente ha diritto a un check up annuale medico. Ci si preoccupa della salute e del benessere del ragazzo più che della sua condotta. I pasti a scuola sono tutti gratuiti e non ci sono distinzioni, se non per esigenze religiose. Gli ebrei e gli islamici non mangiano maiale per esempio. Il focus è centrato sullo studente, come dicevo, e sulle relazioni. Si dà importanza più alla responsabilità e alla fiducia che agli esami e ai voti. Ho l’impressione che un simile sistema in Italia sia inapplicabile, non per i ragazzi, ai quali farebbe benissimo, ma per i genitori e i burocrati, che non sarebbero in grado di comprenderlo. Gli insegnanti in Finlandia non danno valutazioni negative. Non esiste la bocciatura. Semmai sarebbe il sistema ad aver fallito col ragazzo. Bocciare, punire diminuisce le motivazioni e aumenta la disuguaglianza sociale. Mi sembra di ascoltare Don Milani alla Scuola di Barbiana. Che fosse finlandese anche lui?
Non esiste il concetto di fallimento a scuola. Uno studente che fallisce è uno che non ha fatto tutto quello che era nelle sue possibilità. Ma prima di arrivare a fallire ci sono mille occasioni di sostegno, individuali o collettive. Nessuno è lasciato solo. Così si crea una società civile e solidale.
Mi domando che Europa mai costruiremo quando i nostri figli cresciuti nella competitività e nella insufficienza didattica si troveranno a confronto coi finlandesi proiettati verso una collettività creativa e capace di sfruttare appieno la tecnologia. Il futuro non è delle professioni dogmatiche ma delle capacità dinamiche, di chi sa riciclare le proprie competenze su ciò che è necessario produttivamente, della creatività che sa apprendere più che del sapere dato. Più che ingegneri e fisici ci servono “filosofi della costruzione”, “progettatori di mondi astratti”, che sappiano fare i calcoli con le tecnologie nuove a loro disposizione o inventandone altre, per progetti che non abbiamo mai nemmeno immaginato prima.
Il futuro è già qui e noi pensiamo ai grembiulini?