Alzheimer, vari vaccini “esterni” proteggono contro il morbo
La profilassi contro patologie quali tetano e influenza riduce anche del 30-40% il rischio di contrarre la malattia: di cui intanto si è scoperta la progressione in due fasi, con potenziali ricadute terapeutiche
La buona notizia del giorno in tema di salute riguarda il morbo di Alzheimer. Due studi hanno infatti rilevato un curioso effetto collaterale di diversi vaccini “esterni”, che proteggono anche contro quella che è stata definita “la malattia del secolo”. Di cui una terza ricerca ha individuato la progressione bifasica, con potenziali ricadute (altrettanto benefiche) in ambito terapeutico.
Nuove scoperte contro l’Alzheimer
Le prime novità, come riferisce l’ANSA, arrivano entrambe dalla McGovern Medical School della UTHealth di Houston. Dove, aggiunge Il Giornale, due team parzialmente coincidenti hanno scoperto che l’immunizzazione contro l’influenza abbassa del 40% pure il rischio di sviluppare l’Alzheimer. Mentre la profilassi contro tetano, difterite, herpes zoster (il fuoco di Sant’Antonio) e pneumococco è associata a una riduzione del 25-30% della probabilità di manifestare la patologia.
Il meccanismo di azione non è ancora noto, come ha precisato uno degli autori del paper, Avram Bukhbinder, del Centro di Scienze della Salute dell’Università del Texas. Si ipotizza comunque che la vaccinazione stimoli il sistema immunitario in generale, migliorandone l’efficienza nell’eliminare le proteine tossiche responsabili della distruzione dei neuroni.
A tal proposito, un’ulteriore indagine pubblicata su Nature Neuroscience ha evidenziato come gran parte delle lesioni al cervello si produca molto prima che emergano i sintomi. Come infatti spiega il Corsera, all’inizio il morbo avanza in modo lento e silenzioso, nuocendo solo alle cellule più vulnerabili. Solo in un secondo tempo i danni si fanno molto più devastanti, coincidendo con la comparsa dei problemi di memoria e degli altri tratti distintivi dell’Alzheimer.
Riuscire a cogliere i segnali precoci diventa allora fondamentale, perché può aprire la strada a dei nuovi trattamenti. Che a loro volta potrebbero curare anche altre tipologie di demenza, alimentando la speranza che, prima o poi, saranno tutte solo un ricordo.