Amarcord tecnologico: dal telefono bigrigio con lucchetto al Commodore 64
Sono passati 40 anni ma sembrano un’eternità. Un’amarcord tecnologico che ci racconta di quando avevamo un telefono con il lucchetto
In questo lungo anno di confinamento molti dei miei allievi di canto mi hanno chiesto come io trascorressi il tempo alla loro età e quale fosse la tecnologia domestica di cui potevamo disporre per non annoiarci, visto che loro, malgrado gli smartphone, non sanno come passare il tempo.
Tutto il mondo in un click
I miei alunni rappresentano una fascia di età che va dai 10 ai 18 anni. Quando racconto loro come si viveva verso la fine degli anni 70 e i primi anni 80, quando avevo appunto più o meno i loro anni, mi guardano esterrefatti. Riesce loro difficile comprendere come sia stato possibile, per la mia generazione, sopravvivere senza il “mondo in una mano a portata di un clic“.
Perché effettivamente i bambini e gli adolescenti di oggi possono affermare di avere il mondo nella propria mano racchiuso in un “telefonino”. Non starò qui a dissertare sulla bontà o meno della tecnologia. Si è scritto e detto anche troppo. Mi limiterò a sottolineare le differenze tra quegli anni ed il 2021, senza retorica, non potendo tuttavia celare un po’ di nostalgia.
Il telefono bigrigio
Per me che sono nato nel 1970 il telefono era una specie di elettrodomestico. Avevamo, all’ingresso di casa, un mobiletto dedicato a questo oggetto di proprietà della SIP (che sarebbe poi diventata Telecom nel 1994). Era una specie di oggetto sacro, una sorta di piccola Arca dell’Alleanza e come tale solo pochi eletti potevano toccarla. Certamente non i bambini. Questi apparecchi telefonici non esistono praticamente quasi più.
Si possono trovare a volte in vendita, come oggetti di antiquariato, nei mercatini di quartiere o nelle fiere di paese.
Era grigio, si chiamava appunto Bigrigio e pesava la bellezza di 2.5 kg. Il Bigrigio era costituito da una cornetta collegata al corpo dell’apparecchio tramite un cavo. Al centro del corpo vi era un cerchio trasparente con dieci fori rotondi che corrispondevano alle cifre dallo 0 al 9.
Si inseriva il dito indice in un foro corrispondente alla cifra desiderata facendo ruotare il cerchio e poi allo stesso modo, a seguire, ogni cifra fino a comporre in progressione il numero di telefono del destinatario.
Gli elenchi telefonici e le pagine gialle
Accanto all’apparecchio telefonico c’erano sempre una penna e un quaderno. Il ripiano inferiore del mobiletto era destinato agli elenchi del telefono: due di colore scuro contenenti tutti i numeri telefonici degli abbonati (dalla A alla L il primo e dalla M alla Z il secondo). Il terzo di colore giallo: le famose Pagine Gialle che contenevano invece i recapiti telefonici delle attività commerciali della città.
Il telefono serviva esclusivamente per poter comunicare (oggi sembra strano a dirsi) ed era un’operazione non sempre semplice ed immediata. Addirittura non era possibile telefonare in maniera diretta, come nel caso di telefonate internazionali. Per comunicare con una persona all’estero occorreva chiamare il centralino, fornire all’operatore il numero del destinatario, dopodiché si riagganciava la cornetta e si attendeva pazientemente che il centralino richiamasse per essere finalmente messi in contatto con la persona desiderata.
Il lucchetto sul telefono, il contascatti e il duplex
E poiché telefonare all’epoca costava una fortuna, in molte case si ricorreva all’utilizzo di un lucchetto che veniva applicato ad uno dei fori della tastiera circolare del telefono allo scopo di impedirne il movimento di rotazione che corrispondeva alla composizione dei numeri.
Era sicuramente un metodo un po’ dittatoriale ma ve ne era un altro decisamente più democratico che consisteva nel farsi installare un contascatti. Il contascatti era un piccolo apparecchio, una sorta di scatoletta tipo il contatore della luce. Una specie di tassametro che segnava in progressione il numero di scatti relativi alla durata di ogni telefonata. Accanto al telefono, su un foglio di carta, si annotavano i numeri relativi ad ogni chiamata e all’arrivo della bolletta si dividevano le spese.
I più fortunati avevano una linea telefonica indipendente ma spesso, per motivi economici, si divideva la propria linea con un’altra persona che abitava nullo stesso immobile. In pratica una unica linea telefonica serviva due utenze distinte: si chiamava Duplex.
Se da un lato duplex offriva il vantaggio di pagare la metà dell’abbonamento alla Sip, dall’altro si incappava spesso nella fastidiosissima situazione in cui alzavi la cornetta del telefono per digitare un numero e invece di unire il solito suono della linea libera, il famoso “Tu Tuu…“ si trovava la linea occupata. Il che significava che la persona che condivideva il duplex era in quel momento al telefono e finché la telefonata non fosse terminata non si poteva procedere con la propria.
Quando lo racconto ai miei allievi mi guardano come se stessi parlando di una sorta di terra dimenticata dal tempo. In realtà sono trascorsi appena 40-50 anni .
Il televisore
Da bambino, nei primi anni 70, non esistevano ancora le televisioni commerciali e neppure Rai tre che venne inaugurata nel dicembre 1979. C’erano solo Rai 1 e Rai 2, rigorosamente in bianco e nero, e se si disponeva di una buona antenna e di un buon stabilizzatore di corrente ed amplificatore di segnale si riuscivano anche a captare alcune tv straniere come Antenne 2 dalla Francia, Tele Montecarlo, la TV Svizzera e Tele Capodistria. Le trasmissioni a colori furono definitivamente disponibili verso il 1977 e le tv commerciali arrivarono attorno al 1980 .
I televisori erano grandi, pesantissimi ed ingombranti perché a tubo catodico.
Ambitissimo il famigerato Telefunken!
Alcuni modelli disponevano di un telecomando che consisteva in una specie di scatola di plastica grande come uno smartphone odierno ma assai più spessa sulla quale erano inseriti due tasti, uno per ogni canale. Una specie di doppio interruttore elettrico da parete. Viene da sé che le giornate al di fuori della scuola e dei compiti a casa non venivano trascorse al telefono a chiacchierare con gli amici o davanti al televisore a guardare i programmi che all’epoca erano assolutamente centellinati. Spesso il televisore, per buona educazione e a vantaggio del dialogo familiare, veniva tenuto spento e acceso solamente la sera al momento del telegiornale e in occasione di eventi televisivi importanti come il varietà del sabato sera (come il mitico “Tante scuse“ con Raimondo Vianello e Sandra Mondaini), un film assolutamente da non perdere o una partita di calcio della Coppa dei Campioni in Eurovisione.
Il computer, quello sconosciuto
Di computer poi non se ne parlava proprio. Ricordo che mia madre era impiegata presso il Ministero degli Affari Esteri a Roma e una volta mi portò a visitare il Ced (il Centro Elaborazione Dati). Una stanza enorme con apparecchiature elettroniche gigantesche piene di luci dalle quali uscivano schede di carta perforate la cui comprensione resta a tutt’oggi per me un mistero. Ricordo che rimasi impressionato perché ebbi la sensazione di trovarmi all’interno di un’astronave come quelle di cui leggevo nei fumetti .
Non si usava il termine computer. Non lo si conosceva. Si utilizzava piuttosto il termine cervello elettronico o elaboratore dati.
Il primo computer ad arrivare nelle case dei pochi fortunati che potevano permetterselo fu il mitico Commodore VIC 20. Era il 1981 e dopo qualche anno ne uscì una forma più evoluta: il Commodore 64 che io non vidi mai se non nelle pubblicità in tv. Nel 1985 costava, completo di monitor, tastiera, stampante e lettore floppy disk , la bellezza di due milioni e mezzo di lire. Basti pensare che all’epoca lo stipendio medio di un operaio era di circa seicentomila lire…
I videogiochi negli anni 70 praticamente non esistevano. Quei pochi disponibili costavano una fortuna. Si poteva acquistare un apparecchio che collegato al televisore, assolutamente in bianco e nero, consentiva di giocare ad un solo gioco che si chiamava Pong.
In sostanza sullo schermo televisivo compariva, su sfondo nero, una linea bianca verticale tratteggiata al centro che simulava la metà campo, dei numeri che indicavano il punteggio, una pallina bianca e due rettangoli allungati bianchi che avrebbero dovuto rappresentare le racchette dei due giocatori di ping pong e che venivamo mossi tramite due telecomandi per poter colpire la pallina. Tutto qui. Eppure a noi sembrava di aver scoperto il bosone di Higgs.
Mentre scrivo ho negli occhi gli sguardi sgomenti dei miei allievi ai quali, dopo ogni mio racconto, domando puntualmente:
“Voi che avete tutto ciò di cui vi ho parlato e molto di più nel palmo della vostra mano, disponibile illimitatamente 24 ore su 24, come potete confessarmi di sentirvi annoiati? ”.