Ancora polemiche del dopofestival: sono tutti suscettibili e l’Ad Rai finisce sotto scorta
L’errore di comunicazione dell’AD Rai, è stato quello di non prendere le distanze da chi accusava l’azienda di fomentare odio antisemita
Dal Festival sono partite una serie di polemiche dalle quali risulta evidente che l’aria sta cambiando e il potere non sopporta più le critiche e l’ironia. Proseguono le intimidazioni per bloccare la voce degli artisti. Le polemiche hanno fatto scatenare il rapper Geolier fischiato; John Travolta umiliato e Al Bano, prima escluso e poi costretto a difendere il figlio neonato di Romina Carrisi, sul quale Fiorello ha fatto dell’ironia di bassa lega.
L’aria elettrica che ha lasciato il Festival di Sanremo
“Chi fermerà la musica?” Cantavano i Pooh, “l’aria diventa elettrica” e sta diventando elettrica davvero, questo strascico del Festival di Sanremo con la sua serie infinita di polemiche. Al Bano attacca Fiorello, reo di aver ironizzato sul nome del suo ultimo nipote: Alex Lupo, figlio di Romina Carrisi. “Pensa se si incontrasse col figlio di Briatore: Nathan Falco, mai uno che lo chiami Blatta?” La parola ha infastidito Romina Carrisi. Per Al Bano si è trattato di un atto di bullismo disdicevole su un bambino neonato.
Questo dopo che Amadeus, nella edizione del festival del 2023, quando Al Bano intervenne come ospite assieme a Gianni Morandi e a Massimo Ranieri, gli promise che avrebbe preso qualsiasi sua canzone anche senza ascoltarla, poi non ha mantenuto la promessa e Al Bano è rimasto escluso dalla competizione.
Anche su questo Fiorello non ha saputo trattenere una battuta. In conferenza stampa, quando si pensava che i trattori avrebbero marciato sul festival, Fiorello disse ad Amadeus, “Sai chi ci sarà in testa al corteo, vero? Al Bano!” e tutti i giornalisti a ridere. Era una battuta ma gli animi sono esacerbati.
Le battute “troppo facili” di Fiorello: una volta passavano ma ora la sensibilità di tutti è più esasperata e ci si offende facilmente
Fiorello, come tutti quelli che usano l’arma dell’ironia, non sa rinunciare a una battuta. Ferirebbe anche la madre piuttosto che non dire la frase che scatena la risata. Non bisognerebbe farci caso ma c’è chi ha la coda di paglia oppure, come nel caso di Al Bano, sente la famiglia come un cerchio da proteggere e non accetta che si facciano battute facili sull’ultimo nipote, ferendo tra l’altro la figlia a cui tiene molto.
Non solo Al Bano si è scatenato sulle battute di Fiorello. Anche John Travolta non è rimasto felice dell’accoglienza e del suo coinvolgimento nel Ballo del Qua Qua. Per altro una canzone dello stesso Al Bano, cantata con la ex Romina Power, e ha più volte criticato la Rai e i conduttori del Festival per averlo sottoposto a quella umiliante performance. La Rai lo ha denunciato per una possibile pubblicità occulta, visto che indossava sneakers U Power (di nuovo torna il cognome dell’ex moglie di Al Bano) di cui lo stesso Travolta è testimonial nel mondo. Per averle indossate la sera del ballo, ripetutamente inquadrate coi movimenti delle gambe, pare abbia percepito un milione di euro dal proprietario del marchio, seduto in prima fila.
Ma la società che lo tutela aveva firmato un contratto con la Rai, per cui Travolta era tenuto a non promuovere nessun marchio. L’idea del Ballo del Qua Qua, se accettabile nella linea goliardica e paesana di Fiorello, non può essere compresa da un americano miliardario che sa di essere un divo osannato nel mondo. Oggettivamente non è stata una bella idea e lo ha riconosciuto lo stesso Fiorello. Se ne poteva fare a meno. Ma la produzione esecutiva di Raiuno, alla quale spetta il controllo delle pubblicità occulte, dov’era?
Una serie di polemiche hanno preso il via dal palco dell’Ariston
Poi è stata la volta di Geolier, il rapper partenopeo che è stato accusato di cantare in napoletano nel tempio della Canzone Italiana. Intanto Amadeus gli aveva storpiato il titolo del brano nella presentazione: Io pe’tte, Tu pe’mme era diventato Io pe mmé tu ppete. Poi Geolier non ha accettato di buon grado il fatto di essere arrivato secondo, dietro Angelina Mango, nonostante aver preso il 60% dei voti del Televoto.
Questo pare grazie alla sua organizzazione che ha saputo gestire, legittimamente, il voto dei propri fans spiegando loro come fosse possibile moltiplicare ogni voto per cinque. Dal balcone di casa sua, a Secondigliano, ha arringato la folla a fischiare quelli (il pubblico in sala di Sanremo e i giornalisti della Sala Stampa) che lo avevano a loro volta fischiato sul palco dell’Ariston.
Ghali ha gridato “Stop al genocidio”, l’Ambasciata Israeliana e la Comunità ebraica in Italia hanno protestato senza fondamento
Poi è accaduto che Ghali, altro rapper, abbia pronunciato la frase “Stop al genocidio” nella serata finale, quella con i 14 milioni di spettatori. L’Amministratore delegato Rai Roberto Sergio è intervenuto con un comunicato, letto dalla Venier a Domenica In del giorno successivo alla finale, che solidarizzava con la Comunità ebraica italiane e con l’ambasciatore israeliano a Roma, i quali avevano condannato la frase di Ghali come fosse un atto di accusa contro Israele e una frase che seminava odio. Ma Ghali non aveva pronunciato il nome di Israele e non seminava affatto odio ma chiedeva la Pace.
Ora che si scambi per odiatore chi vuole fermare, se non un genocidio, come afferma anche il Tribunale dell’Aja (sotto l’egida delle Nazioni Unite) ma un crimine contro l’umanità di sicuro, è un’aberrazione cui s’è sottoposta la Rai. In altri tempi, di fronte sia all’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre che al massacro dei civili di Gaza, 30mila morti in 4 mesi più 70mila tra feriti e mutilati e oltre un milione di profughi, la Rai avrebbe preso le distanze da entrambi e avrebbe chiesto, d’accordo con Ghali, il cessate il fuoco. Come fa lo stesso Papa Francesco che non mi pare, come in passato altri Papi, un antisemita.
L’AD Rai, evitando l’equidistanza, invece di gettare acqua sul fuoco, vi ha gettato benzina e sono scoppiate nuove polemiche e sit in
L’errore di comunicazione dell’AD Rai, è stato quello di non prendere le distanze da chi accusava l’azienda di fomentare odio antisemita. Ha scatenato l’ira di quanti lottano perché si fermino le armi e ci sono stati i sit in davanti alle sedi Rai di Napoli e Torino, terminati con le manganellate della Polizia agli studenti e ai pacifisti. Non sono solo partite le proteste ma anche le minacce contro l’AD Rai che ora vive sotto scorta, come Roberto Saviano minacciato dalla camorra.
La cosa è ovviamente inaccettabile. Roberto Sergio aveva tutto il diritto di dire la sua, anche se si può dissentire e questo non autorizza nessuno a alzare l’asticella dello scontro da verbale con minacce alla vita. Lo stesso Fiorello s’è reso conto che la cosa sta degenerando, ma questo è proprio quello che voglio sottolineare in questo articolo e tutti hanno contribuito a farlo, un po’ incoscientemente e un po’ irresponsabilmente. Ora bisogna fermare le bocce e chiarire dove sta la verità. Che non è quella dell’Ambasciatore Israeliano, né quella di che ne segue la scia.
Moni Ovadia e gli ebrei antisionisti sconfessano l’azione di Netanyahu che mette in pericolo l’esistenza stessa di Israele e apre a possibili ampliamenti del conflitto
Decine di ebrei americani manifestano al Congresso per chiedere il cessate a fuoco a Gaza. Le immagini mostrate da media mostrano i manifestanti con indosso una maglietta nera con la scritta “Not in our name” (Non in nostro nome). In Israele e nel mondo organizzazioni ebraiche e intellettuali ebrei come Moni Ovadia condannano l’eccidio, la strage, lo sterminio, chiamatelo come vi pare, dei cittadini palestinesi che scappano dalle bombe, ritendendolo un abominio come lo fu la Shoah contro il popolo ebraico durante la Seconda Guerra Mondiale.
È lo stesso sentimento di giustizia che si leva contro chi usa lo sterminio come regolazione dei conti, invece che il dialogo. Pare evidente che il Governo Netanyahu sia finito in un cul de sac dal quale non potrà uscire se non perdendo la guida del Paese. In pratica sia Netanyahu che Hamas, chiedendo la reciproca distruzione, sono due facce della stessa medaglia e si supportano a vicenda, perché anche Hamas costringe i palestinesi in un conflitto che non ha soluzione.
Il sionismo ridefinisce il significato dell’essere ebreo: non più basato sull’osservanza dei comandamenti divini ma basato sull’appartenenza nazionale. Per i leader religiosi ebraici, ortodossi quanto rifomati, ciò equivale a una bestemmia. La confutazione teologica del sionismo, redatta nel 1958 da rabbi Joel Teitelbaum, del chassidismo Satmar, resta un classico per gli ultraortodossi odierni, inclusi gli haredim di Gerusalemme.
L’idea sionista è per loro una minaccia alla tradizionale identità ebraica: gli ebrei sono un gruppo confessionale e spirituale, non una nazione separata. Le esigenze politiche militari di Netanyahu non hanno a che fare con il popolo ebraico ma con la volontà di dominio delle terre conquistate anche illegalmente. Quindi non si parli di antisemitismo.
Sul palco gli artisti si possono esprimere liberamente ma se fai loro una domanda non possono rispondere, perché a Sanremo si va per cantare
Dargen D’Amico, altro artista del Festival, che cantava “Onda Alta” ha dovuto subire l’interruzione di Mara Venier a Domenica In, mentre rispondeva ai giornalisti spiegando il senso della canzone. Parlava dei bambini migranti morti in mare, ma per motivi di tempo e di scaletta è stato interrotto. Mara non ha colpa se deve dare spazio a 30 cantanti e non ce la fa a stare nei tempi. Tant’è che ha dovuto rinviare alla puntata di domenica 18 febbraio, alcuni di questi artisti e ha invitato lo stesso Dargen D’Amico a tornare. Lei non ha mai censurato nessuno, anche se il gesto s’è visto.
Lo ha ribadito in una intervista con Aldo Cazzullo per il Corriere della Sera. Pare che D’Amico non andrà alla puntata. Vedremo. Intanto Fabio Fazio ha invitato Ghali e forse d’ora in poi, ogni censura non farà che rimpinguare gli ascolti di Canale 9, una emittente che, come La7, si propone di realizzare quel servizio pubblico che la Rai sta via via abbandonando.
Il cessate il fuoco lo chiede il Papa, lo chiedono movimenti ebrei non sionisti, lo ha chiesto Biden e Macron e ora anche il Parlamento italiano, ma perché non lo può chiedere Ghali?
Altra conseguenza dei fatti di Sanremo è l’assurda richiesta di un deputato della Lega, il sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Alessandro Morelli, di proporre “una sorta di Daspo (esclusione) per chi utilizza il palco di Sanremo per fini diversi da quelli della musica”. Poi ha ribadito questo concetto aberrante ai microfoni de La Zanzara su Radio 24. Morelli è un fedelissimo di Matteo Salvini. Ovviamente questa proposta che confonde il daspo dato ai violenti ultras, che creano disordini negli stadi e usano epiteti razzisti contro i giocatori avversari, con chi chiede la pace nelle sue canzoni, è potuta crescere solo nella mente di un leghista come Morelli.
Siamo alla follia e che sia un rappresentante della politica a farlo, è un chiaro segno di nervosismo e di incapacità a comprendere i limiti dl potere e i principi di democrazia. Potrei citare milioni di esempi da Eve of distruction, a Imagine, a Blowin’ in the wind, a Carlo Martello di De André, a Generale di De Gregori, a Bomba su Bomba di Venditti o Futura di Dalla, per ricordare a Morelli quanto la musica si occupi di politica da sempre. Ma sarebbe inutile.
Gli artisti nella canzoni parlano della vita
Gli artisti, anche se alla Lega si vede che non ne frequentano molti, da che mondo è mondo parlano della vita e di ciò che colpisce i nostri sentimenti più veri e profondi e la morte di decine di migliaia di bambini certamente lo è, sia quelli che muoiono in mare, sotto le bombe israeliane, per mano dei terroristi di Hamas o sotto le cannonate ucraine e russe.
Fermate la guerra è una frase che dicono tutti gli uomini di buona volontà, compresi molti movimenti ebrei, antisionisti, anti Netanyahu, che in queste settimane, manifestano affinché si ponga fine al massacro. Per altro lo sostiene anche lo stesso Presidente Usa Biden e il presidente francese Macron lo ha detto apertamente per telefono proprio a Netanyahu: Basta con i bombardamenti!
L’illuminante pensiero di Vannacci sulla gonna di Mengoni lascia intravedere la solita crassa ignoranza del militare
A latere delle polemiche citate c’è stato anche chi, cercando una facile occasione di alimentarne di nuove, è andato a chiedere a quell’esempio di moderazione e di profondità di pensiero che è il generale Roberto Vannacci, da molti indicato come il futuro della destra italiana, un giudizio su Marco Mengoni presentatosi in gonna di pelle nera sul palco per presentare il collega Mahmood.
Il cantante ha sfoggiato una serie di look davvero super glamour, tra cui una gonna midi in pelle. Una scelta che sul palco dell’Ariston era già stata sdoganata da Mahmood nel 2022, quando si era esibito con Blanco sulle note di Brividi, e che è stata riproposta anche da Alessandro De Santis dei Santi Francesi. Il cantante, che si presenta come una figura lontana dall’idea di maschio tossico, ha intonato Hallelujah di Leonard Cohen con una gonna nera ricca di ricami firmata Dolce&Gabbana amatissima sui social e all’Ariston: decisamente uno dei look più riusciti della quarta serata.
Vannacci scambia un modello di Fendi per una minigonna e sente di poterne ridere, scordando (o non conoscendo) la storia e la cultura
Il generale Vannacci non si è potuto trattenere dal commentare la scelta stilistica di Mengoni. “Ognuno è libero di indossare quello che vuole, ma non si stupisca poi Marco Mengoni se qualcuno ride di lui perché indossa una minigonna“. Non era una minigonna, sarebbe stato ridicolo, ma un capo di Fendi, gonna in pelle nera sotto al ginocchio. Comunque il generale Vannacci dimostra di non essere al passo con i tempi, visto che quel capo di vestiario ormai è diffuso nelle giovani generazioni. Tutto il mondo della moda e dello spettacolo abbatte gli stereotipi di genere, anche attraverso capi un tempo considerati tradizionalmente maschili o femminili. Secoli fa uomini e donne portavano entrambi la gonna. In battaglia consentiva maggiore libertà di movimento, ed un generale dovrebbe averlo studiato.
Poi nel ‘900 le gonne maschili sono scomparse per tornare negli anni ’60 come provocazione contro i limiti di genere. Ricordiamo anche recentemente sfilate di uomini in gonna di Harry Styles, Dan Levy, Marc Jacobs e anche di Damiano David dei Måneskin. Per non citare sempre i kilt scozzesi e altri capi di vestiario come il sarong, una gonna unisex di origine malese o il cheongsam cinese, il deshdasheh arabo. In Albania si usa la fustanella e anche le guardie reali greche indossano un gonnellino bianco. La gonna o l’abito talare a tunica è tipico poi degli ordini monastici e dei preti cattolici.
Vogliamo ridere anche di questi generale? In India e in Giappone vi sono abiti maschili a forma di tunica o divisa che non sminuiscono certo la virilità di chi li indossa, anzi. Le dò un consiglio, li provi generale, chissà che non scopra di sentirsi a proprio agio.