Anni 2000: la fine dei complessi, dei dischi e della musica
Far viaggiare, alloggiare, ristorare e pagare tante persone non è più sostenibile dalle case discografiche. Meglio il cantante da solo
In quelle domeniche degli anni ’80 a Roma, come in tutte le altre città d’Italia, accadevano tre cose fondamentali: il Signore si riposava, dalle15 alle 17 il mondo si fermava perché dalle radioline soffiava, come un vento a volte leggero altre irruento, un crogiolo di meravigliose e indimenticabili voci che raccontavano “Tutto il calcio minuto per minuto“, e dalla terra, quasi fossero i suoni di Efesto che costruiva le armi per gli dei, si levava un suono, quello della musica dei gruppi che provavano le canzoni del proprio repertorio all’interno di cantine umide, buie ma dignitosamente ripulite e insonorizzate con i cartoni delle uova incollati alle pareti e al soffitto e qualche tappeto rimediato qua e là.
I complessi musicali
In realtà il fenomeno dei gruppi musicali o complessi, come venivano chiamati allora, era esploso già a partire dalla metà degli anni ’60. Centinaia di band (come si dice oggi) sognavano di uscire dal “sottosuolo“ per potersi esibire nei locali più celebri del momento, nella speranza di diventare famosi come i Beatles, i Rolling Stones, i Procol Harum, The Yardbirds, i Deep Purple, (solo per citarne alcuni) i cui successi riproponevano spesso cantandoli in un inglese improvvisato. Tanto allora chi lo avrebbe notato…
Dovete pensare che a quei tempi i testi delle canzoni inglesi non erano quasi mai neppure stampati all’interno dei dischi, internet non esisteva e per ”tirare giù” le parole di un brano occorreva fare la colletta e acquistare il vinile (che costava non poco). Poi tutti intorno al giradischi ad ascoltare, decine e decine di volte, tentando di capire le parole della canzone da provare. Si andava per approssimazione, tentando almeno di riprodurne la fonetica, affinché somigliasse all’originale e a qualcosa di grammaticalmente corretto e non troppo maccheronico, per evitare di sembrare l’americano a Roma di Alberto Sordi.
Fare parte di una band era quasi obbligatorio se volevi esibirti. In fondo era un processo naturale visto che le basi musicali (karaoke) sulle quali cantare non esistevano e l’unico modo per farlo era avere dei musicisti che suonassero le canzoni del repertorio.
Piccola curiosità. II termine KARAOKE è di origine giapponese ed è formato da due parole: KARA, che significa vuoto e OKE (abbreviazione di okesutora) che vuol dire orchestra. Quindi orchestra vuota , o “senza orchestra“ , senza musicisti. Allo stesso modo la parola karate in cui kara sta per vuoto e te per mano (mano vuota, disarmata).
Un complesso era generalmente composto da basso, batteria, tastiera, chitarra e voce
Militare in un complesso era quasi un’ossessione e non a caso anche mio padre , batterista, ne formò uno assieme ai miei zii (così ancora amo chiamarli) Luciano, Sandro e Massimo e decisero di chiamarsi Obsession Group. Questo accadeva alla fine degli anni 60, prima che io nascessi. Poi seguii le orme di mio papà e da cantante/chitarrista formai, nella metà degli anni 80, il mio primo gruppo : i Sacred Mount (eravamo tutti del quartiere romano di Monte Sacro, ovviamente…).
Fino ai primi anni novanta si contavano centinaia di complessi amatoriali ed emergenti solo nella capitale che dai tempi dei Beatles avevano attraverso varie ere musicali: dal beat al punk, dal progressive al pop, dal hard rock al heavy metal.
Lo show business aveva lanciato nelle tre decadi precedenti nomi come New Trolls, Dik Dik, Camaleonti, Equipe 84, PFM, I Pooh, e poi i Matia Bazar, gli Stadio e tantissimi altri.
Le cantine furono abbandonate e ritornarono ad essere il naturale deposito di ciò che non ci serve più ma non vogliamo gettare via.. Cominciarono ad emergere soprattutto cantanti solisti, e le band , amatoriali, debuttanti e famose, cominciarono a scomparire dalla scena musicale italiana.
Dove sono tutti?
La leggenda vuole che, mentre lavorava nei laboratori di Los Alamos nel 1950, Enrico Fermi prese parte a una conversazione con alcuni colleghi, il cui argomento erano gli UFO, finché improvvisamente esclamò: «Dove sono tutti?». Il fisico italiano si riferiva al fatto che, esistendo miliardi di galassie nell’universo, come era possibile non ci fosse Vita altrove?
Dove sono finiti tutti i gruppi musicali?
Ancora una volta la principale responsabilità ricade su internet. Prima dell’avvento del web, l’industria discografica si reggeva su fatturati importantissimi i cui proventi derivavano dalle vendite dei dischi. Se ne vendevano a milioni, tra musicassette, vinili e poi CD. D’altro canto se volevi ascoltare le canzoni non avevi altra scelta: o acquistavi il disco oppure aspettavi che il brano fosse trasmesso alla radio.
Poi, con internet, tutto ha cominciato a finire nella rete (in tutti i sensi), in barba al diritto d’autore. Le canzoni iniziarono ad essere scaricabili gratuitamente in maniera sempre più massiccia e semplice, fraudolenta, facendo crollare il mercato discografico, cosicché oggi di dischi non se ne vendono praticamente più.
Basti pensare che in Italia, fino al 1974, quando un artista riceveva il disco di platino, significava che ne aveva vendute dieci milioni di copie. Oggi lo ricevi se il tuo brano o album ( compresi gli acquisti digitali e lo streaming di alcune piattaforme on line ) ) ne riesce a vendere appena 50mila. Di conseguenza, moltissime case discografiche sono fallite, hanno chiuso i battenti oppure sono state assorbite da quelle poche che sono sopravvissute.
Playback e finti album dal vivo
Gli utili arrivano attraverso programmi musicali televisivi, grazie ai talent e con le tournée dal vivo. E anche qui tutto è cambiato visto che con la tecnologia, che “ fa cantare intonato “ anche chi non lo è, e la necessità di proporre dal vivo ( ma anche nei dischi “ spacciati per live “ ) suoni il più possibile simili a quelli delle canzoni incise in studio di registrazione, si è arrivati al punto in cui ormai almeno il 90% degli artisti che si esibisce in tournée lo fa in realtà almeno in parziale playback.
Voci e musica registrati. A differenza di quelli di alcune decadi fa, oggi un disco registrato in studio e uno dal vivo sono praticamente uguali: tutto suona alla perfezione. Gli album live fino agli anni 80 erano “veri”, si sentivano errori, imperfezioni, perfino piccole stonature. Ti sembravo di essere al concerto. Oggi sono corretti in studio, ri-registrati , si aggiungono applausi ed urla del pubblico ed il gioco è fatto.
Costi di gestione di una band: meglio solo il cantante
Gestire una band di quattro o cinque elementi non è più fattibile. Far viaggiare, alloggiare, ristorare e pagare tante persone non è più sostenibile dalle case discografiche. Meglio il cantante da solo. Se poi di talento ne ha poco( a parte quello di essere attraente e il più possibile stravagante fisicamente e sessualmente ), fa nulla. Anzi meglio. Meno è bravo , meno mette bocca sulle decisioni che lo coinvolgono. Più facile da gestire, usare e poi, una volta passata la moda del momento, metterlo da parte e rimpiazzarlo con qualcuno più fresco.
Cinica legge del mercato che di artistico ha ormai ben poco. Basta guardare le edizioni del Festival degli ultimi dieci anni.
Ecco dove sono finiti tutti i gruppi musicali
A dire il vero, alcuni irriducibili li si può ancora incontrare in alcuni ( pochi ormai ) locali dove si fa musica dal vivo. Purtroppo, a causa del totale disinteressamento da parte dello show business, quasi tutti i gruppi che si esibiscono nei club propongono canzoni di altri artisti e quasi mai le proprie ( non ci sarebbe spazio nel mercato ) ed il fenomeno delle tribute band ( band che in tutto e per tutto, dai costumi di scena alla somiglianza fisica ripropongo, spesso in maniera estremante fedele e di ottimo livello, lo spettacolo dell’artista che hanno deciso di riproporre) rappresentano la quasi totalità dei complessi non professionisti.
Oggi di gruppi famosi ancora sulla scena, costituiti da grandi musicisti e con un repertorio importantissimo, ne sono rimasti ben pochi: i Pooh, ancora in tour alla soglia dei sessant’anni di attività. Gli Stadio, mitica band che accompagnò per un periodo Lucio Dalla. I più giovani Negroamaro, Le Vibrazioni e pochissimi altri. Segue uno stuolo di gruppi nati praticamente l’altro ieri con nomi così complicati e difficili da ricordare che il tempo di averli Imparati a memoria e sono già scomparsi dalle scene.
Il gruppo o complesso o band come preferite chiamarlo è una piccola orchestra , l’espressione massima della condivisione della musica su un palco. E come amo ripetere ai miei allievi di canto : “ La musica, come l’arte in generale, esiste per un solo scopo: quello di essere condivisa. “Purtroppo viviamo in un mondo in cui la condivisione è scomparsa e la condivisione è un filo che ci tiene tutti uniti. Non si va più al cinema insieme, si preferisce guardare un film in casa di fronte al televisore o ancora peggio su un computer se non addirittura sul piccolissimo schermo di un telefonino. Si ascolta la musica attraverso delle cuffiette senza renderne partecipi gli altri.
E’ un mondo di “ uomini soli “ come cantarono i Pooh in quel Sanremo del 1990.
E avevano più ragione di quanto forse potessero immaginare allora.
“Ma Dio delle città e dell’immensità,
magari tu ci sei e problemi non ne hai.
Ma quaggiù non siamo in cielo, e se un uomo perde il filo,
è soltanto un uomo solo“.