Arriva il Decreto Rimpatri. Fondi, procedure accelerate e tracce di ripensamento
Di Maio: lo stanziamento iniziale «dovrà superare i 50 milioni di euro, come base agli accordi coi Paesi terzi» che manifestano «la volontà di rimpatriare»
Chiamateli come volete: migranti, irregolari o clandestini. L’importante è capirsi. Parliamo di coloro i quali arrivano qui in Italia al di fuori delle normali procedure per gli stranieri. Talmente tanti, nel corso degli anni, da portare vasti settori della popolazione, e dell’elettorato, fino all’esasperazione.
L’ottimismo è finito da un pezzo, su questo tema. E quindi è inevitabile e doveroso mantenersi estremamente cauti, di fronte a qualsiasi dichiarazione governativa sui miglioramenti a venire. Non è uno sciocco pregiudizio. È che a forza di delusioni abbiamo imparato – abbiamo dovuto imparare – a fare la tara. A qualunque nuovo annuncio. A qualunque nuova promessa.
Nel caso specifico è la volta di Luigi Di Maio, che ha presentato oggi il decreto “Rimpatri sicuri”. Il provvedimento, ha dichiarato il neo ministro degli Esteri, «si occuperà degli sbarchi di ogni tipo, dalle Ong – il 10% – ai barchini, avviando un meccanismo di rimpatrio che durerà da due anni a quattro mesi. In Italia siamo all’anno zero sui meccanismi dei rimpatri, nulla è stato fatto negli ultimi 14 mesi e il primo step è stato fissare una nuova lista di Paesi sicuri».
Sulla frecciata a Salvini si può sorvolare: sono ruggini tra ex alleati e non aggiungono nulla a ciò che è già emerso sulle diversità personali e ancora di più sulle differenze politiche tra i rispettivi partiti.
Rimaniamo invece, continuando a seguire il resoconto dell’Agenzia Dire, sugli aspetti “tecnici”. «I Paesi per i quali si velocizzano i rimpatri – ha specificato Di Maio – sono: Algeria, Marocco, Tunisia, oltre a Senegal, Ghana, Capo Verde, poi Albania, Bosnia Erzegovina, Kosovo, Macedonia del Nord, Montenegro, Serbia e Ucraina. Su 7.117 arrivi del 2019 oltre un terzo appartiene a questi Paesi. Anche per queste persone si deve attendere due anni ed è anche questo che rallenta i rimpatri».
A proposito: fissiamo i dati ufficiali, peraltro riferiti solo agli sbarchi e, come viene precisato sul sito del Ministero degli Interni, “suscettibili di successivo consolidamento”. A tutt’oggi, inteso proprio come 4 ottobre 2019, siamo poco sotto gli ottomila. Alla stessa data dell’anno passato eravamo a più di 21mila. E l’anno ancora precedente sfioravamo i 107mila.
Ricordiamolo subito, allora. Quando ci si occupa di rimpatri non bisogna farlo solo in chiave futura. Al contrario: è fondamentale intervenire anche su chi è già arrivato in precedenza. Senza sprofondare nella solita scusa, nel solito alibi, delle “situazioni di fatto”.
Decreto Rimpatri: un decreto, appunto
La parte più interessante, nelle parole di Di Maio, è quella che va al di là delle procedure di rimpatrio e che si estende alle linee guida. Che si possono ridurre a tre: maggiore collaborazione con i Paesi di origine; interventi economici “a casa loro”, per fermare le partenze; abbandono dell’idea che l’accoglienza possa essere pressoché indiscriminata, a patto che poi ci sia un ricollocamento su base europea.
«Io non penso che la redistribuzione sia la soluzione, è un meccanismo che aiuta come Europa non come Italia. Per le regole europee, accogliamo chi ha bisogno di aiuto. Gli altri saranno rinviati nei Paesi, in sicurezza. Se in un Paese di origine si viene a sapere che non solo puoi arrivare in Italia, ma con la redistribuzione puoi arrivare in Francia, è chiaro che si crea un fattore di pull-factor (fattore di attrazione, ndr).»
Il ragionamento è sensato. E sarebbe il caso di estenderlo anche ai rifugiati, rimettendo in discussione gli attuali automatismi e verificando in modo molto più accurato, e stringente, i requisiti per il riconoscimento dello status.
Il nodo che viene puntualmente ignorato, dai sostenitori dell’umanitarismo “sempre e comunque”, è quello dei limiti oggettivi all’assorbimento in Europa delle moltitudini in fuga. E sarebbe davvero ora che qualcuno si facesse carico di indicare quali siano le soglie massime invalicabili, specificando in dettaglio le conseguenze di questo impatto sugli attuali equilibri – o squilibri – sociali ed economici.
Nel frattempo, giocoforza, si va avanti così: a colpi di decreti.