Benedetto XVI, “l’errore sostanziale” e il “non ci indurre in tentazione”
Per dei commentatori Usa, Papa Ratzinger avrebbe redatto una Declaratio invalida in modo inconsapevole. Replichiamo alla loro ipotesi anche con riferimento al Padre Nostro
Nell’ambito della Magna Quaestio, ovvero il dibattito sulle (probabilissime) non-dimissioni di Papa Benedetto XVI, c’è una posizione particolare in voga soprattutto negli Stati Uniti. È la cosiddetta «teoria dell’errore sostanziale», secondo cui, sintetizzando al massimo, Joseph Ratzinger avrebbe effettivamente redatto la celeberrima Declaratio in modo invalido, ma lo avrebbe fatto “inconsapevolmente”. Un’ipotesi criticata da Andrea Cionci, collaboratore di Libero e principale autore italiano dell’inchiesta, e sulla quale RomaIT offre ora un nuovo contributo.
Un “errore sostanziale” di Benedetto XVI?
Il dibattito sull’affaire Vati-gate sta dunque iniziando a snodarsi sull’asse Italia-Usa. Il che è senz’altro una buona notizia, anche se Oltreoceano, come scrivevamo alcune settimane fa, hanno qualche problema a individuare il vero nocciolo della questione. Preferendo concentrarsi su aspetti “filosofici” che appaiono francamente marginali.
Il punto di partenza, in realtà, è uguale per tutti. La nullità della Declaratio di Papa Ratzinger, d’altronde dimostrata da insigni giuristi e canonisti quali l’avvocatessa Estefanía Acosta e il docente Antonio Sánchez Sáez.
Non hanno problemi a riconoscerla neppure autorevoli commentatori cattolici come il professor Edmund Mazza e i blogger Ann Barnhardt e Mark Docherty. I quali, tuttavia, la attribuiscono a un’errata concezione del Papato da parte di Benedetto XVI. Che, volendo creare l’istituto dell’emeritato e scindere il Pontificato in due (con un Papa attivo e uno contemplativo) avrebbe finito per scrivere un’abdicazione giuridicamente inefficace.
È la tesi dell’errore sostanziale, che nega alla radice l’eventualità che Papa Benedetto si sia scientemente ritirato in sede impedita per costringere il cancro modernista a palesarsi. Il collega Cionci l’ha già confutata in modo decisamente convincente, con riferimenti sia canonici che, per esempio, al “Codice Ratzinger” (da lui stesso individuato). L’arguto e fine modus communicandi fatto di giochi di parole, enigmi e rompicapi, adottato dal mite teologo bavarese per inviare messaggi dal suo autoesilio.
Non ci indurre in tentazione
Una delle argomentazioni dei teorici dell’errore sostanziale è l’assunto che Sua Santità non avrebbe potuto perpetrare «uno dei più grandi inganni della storia della Chiesa». Per quanto – controbatte Cionci – estremizzando si potrebbe paragonare la situazione di Benedetto XVI a quella di un sequestrato. Che, come l’aviatore americano Jeremiah Denton, non può dichiarare il proprio rapimento (condizione in cui si trova fattualmente) se non servendosi di un linguaggio criptato.
Un aspetto interessante, comunque, è il fatto che il ragionamento yankee suoni in qualche modo simile al famoso “Dio non può indurre in tentazione”. La frase con cui Jorge Mario Bergoglio ha motivato la nuova traduzione del Padre Nostro.
In greco, il versetto modificato si legge μὴ εἰσενέγκῃς ἡμᾶς εἰς πειρασμόν (mè eisenénkes emàs eis peirasmòn). Letteralmente, significa “non portarci verso la prova”, che non implica affatto che Dio Padre sia l’autore della prova stessa. Ma semplicemente che, come ricordava proprio Joseph Ratzinger, il Creatore può permettere che l’uomo venga tentato – «come penitenza per noi» oppure «per la Sua gloria».
Ora, si ricordi che nel 2013 Benedetto XVI si trovò accerchiato da nemici interni (la Mafia di San Gallo) e verosimilmente esterni (il blocco dei bancomat vaticani). A quel punto potrebbe ragionevolmente averli “messi alla prova” – in analogia col dettato etimologico del Pater Noster. Diffondendo una dichiarazione di rinuncia al ministerium (cioè al solo esercizio pratico del potere) al fine di «separare i credenti dai miscredenti», come disse all’Herder Korrespondenz.
Il resto lo hanno fatto i “lupi”. Che, ancorché travestiti da agnelli, come lo scorpione della favola di Esopo alla lunga non potevano che rivelare la propria reale natura.