Biden si è ritirato, ma i grandi sconfitti sono media e fact-checkers
Per anni la stampa e i debunker hanno negato l’evidenza del declino di Sleepy Joe, e perfino delle sue gaffe: e la sua sostituzione con la vice Kamala Harris potrebbe non essere così semplice
Com’è ormai arcinoto, Joe Biden ha rinunciato a correre alle prossime Presidenziali Usa, lanciando al contempo il proprio numero due Kamala Harris. Operazione che, in realtà, potrebbe non essere così semplice, e neppure così redditizia per il Partito Democratico. In ogni caso, è già chiaro che i grandi sconfitti di questa vicenda sono (di nuovo) i media mainstream e, ancora di più, i debunker.
Il passo indietro di Biden
«Credo sia nel miglior interesse del mio partito e del Paese che io mi faccia da parte». Così, come riporta il Corsera, scrisse Joe Biden (ché di questi tempi era più sicuro che farlo parlare, soprattutto a braccio). Aggiungendo via X che «oggi voglio offrire il mio pieno sostegno e il mio endorsement a Kamala [Harris, N.d.R.] affinché sia la candidata del nostro partito quest’anno».
La Veep, come rileva Il Sole 24 Ore, ha subito colto la palla al balzo, assicurando però che intende «guadagnarsi la nomination democratica». Formula che fa capire come l’investitura non sia affatto scontata, non foss’altro per la possibilità di ricorsi legali. Come infatti ha illustrato a Politico Mike Johnson, speaker repubblicano della Camera, i sistemi elettorali di alcuni Stati non consentono la semplice sostituzione dell’aspirante Presidente.
Inoltre, alla Convention agostana di Chicago i delegati dem dovranno scegliere, cercando di non farla passare per una “congiura di Palazzo”, un nome non indicato dalla base. La quale, peraltro, ben difficilmente avrebbe optato per la Border Czar (la “zarina dei confini”, come la chiamano sarcasticamente nel GOP). Impopolare almeno quanto Sleepy Joe, invisa perfino all’interno della formazione dell’Asinello, e oltretutto percepita come un’estremista di sinistra che rischia di allontanare indipendenti e moderati.
Certo, la diretta interessata continuerà a giocarsi le carte dell’etnia, del genere e tutte le “amenità” woke che mandano in sollucchero i paladini progressisti del politically correct. A costo di far passare l’idea che questi siano i suoi unici “meriti” e di oscurare, per esempio, il suo passato da Procuratore Generale della California. Incarico per il quale, come ricorda Il Riformista, tra il 2011 e il 2013 aveva ricevuto dei finanziamenti perfino da Donald Trump, così per dire.
Media e fact-checkers sono i grandi sconfitti
Nel frattempo, non sorprendentemente, la grande stampa ha già cominciato a “santificare” Laughing Kamala, il che naturalmente è del tutto legittimo. Peccato però che fino a fine giugno facesse altrettanto con l’ex vice di Barack Obama, idolo sedotto e abbandonato dopo il disastroso duello tv col tycoon. E – sia chiaro – scaricato per puro cinismo e terrore della sconfitta, non certo per un’improvvisa epifania sul suo pur lampante declino cognitivo.
In questo senso, peggio degli organi d’informazione sono solo i fact-checkers, coloro che dovrebbero (non si sa in base a quali competenze) controllare la veridicità delle notizie. Ma che per anni hanno negato un’evidenza che era tale per chiunque altro, arrivando ridicolmente a spacciarla per propaganda russa. E spingendosi talvolta a riservare ai dubbiosi perfino delle ironie completamente fuori luogo.
Sono gli stessi che oggi, dando conto della partita per la Casa Bianca, assicurano che l’avvocatessa di Oakland è testa a testa con The Donald e ha incassato un boom di donazioni. Anche se i sondaggi (per quello che valgono) raccontano un’altra storia, e le erogazioni coincidono praticamente con quelle congelate fino all’uscita di scena della “gaffe machine”.
A questo punto, però, la credibilità del cosiddetto “quarto potere” e degli annessi verificatori è ridotta al lumicino. Perciò, a maggior ragione, è tutto da vedere se, rispetto a Biden, sia più facile per una Kamala passare per la cruna di un Mar-a-Lago.