Bruce Chatwin e lo spazio metafisico del viaggio
Chatwin era un essere nomade e non stanziale e il nomadismo fu sempre il nucleo profondo dei suoi interessi filosofici e letterari
La parabola letteraria e artistica di Bruce Chatwin (1940-1989), il grande viaggiatore e scrittore inglese, si snoda lungo un arco di circa dieci anni. “In Patagonia”, il suo splendido esordio letterario, è del 1977. “Le Vie dei Canti” che, fatta eccezione per “Utz”, di fatto la conclude, è del 1987. Nel 1989 la vita nomade e raminga di Chatwin termina, a 49 anni di età, a causa dell’Aids.
Chatwin era un essere nomade e non stanziale e il nomadismo – l’alternativa nomade come suona il titolo della raccolta di lettere pubblicata da Adelphi – fu sempre il nucleo profondo dei suoi interessi filosofici e letterari. Di più, era un modo di essere e di esistere, cui Chatwin consacrò la seconda parte della sua vita.
Un nomadismo metafisico
Come Martin Heidegger cercava la dimensione del pensiero arcaico nei frammenti dei sapienti dell’epoca presocratica, l’età eroica del pensiero greco tra VII e V secolo a. C., così Bruce Chatwin fece, nelle “Vie dei Canti”, con gli aborigeni australiani. Poiché il libro di Chatwin è una meditazione filosofica. Alla maniera nomade, certo, e non in quella del pensatore epocale che rifletteva sul destino della metafisica.
Che l’accostamento sia legittimo è dimostrato dal fatto che lo scrittore inglese cita, all’inizio del terzo capitolo del suo libro, il terzo dei “Sonetti a Orfeo” di Rilke. Come è noto, Heidegger considerava il tardo Rilke uno dei luoghi in cui la poesia si incontra con la meditazione essenziale.
Che il paragone, a prima vista singolare, sia giustificato, è dimostrato da citazioni di Heidegger stesso, nella parte relativa ai “Taccuini” da cui “Le Vie dei Canti” è attraversato. Nonché da quella dei famosi versi di “Patmos” di Hölderlin, posti alla fine della conferenza di Heidegger sulla tecnica del 1954. Essi suonano: “Dove però è il rischio / anche ciò che salva cresce” (trad. it. E. Mandruzzato). La differenza è che Chatwin pensava raccontando, alla maniera dei saggi dell’ebraismo, i Chassidim di cui narra Martin Buber.
Ma ascoltiamo i versi del terzo dei “Sonetti a Orfeo” di Rilke: “Un Dio lo può. Ma come potrà un uomo, / dimmi, seguirlo sull’esile lira? / L’uomo è discordia. Non ha templi Apollo / dove in cuore s’incrociano due vie. // Il canto che tu insegni, non è brama, / non cerca meta che s’attinga al termine. / Canto è esistenza.
Al Dio facile cosa. / Ma noi, noi quando siamo? E al nostro essere // quando rivolge il Dio la terra e gli astri? / Non quando ami se anche, giovinetto, la voce / forzi la bocca. E tu impara a scordarlo, / il canto che ti nacque; e che si perde. / Vero canto è un altro alito, un alito che tende / a nulla. Uno spirare nel Dio. Un vento” (trad. it. G. Cacciapaglia). Versi ardui e potenti, al pari di tutto l’ultimo Rilke.
Ma eccolo qui, il verso fondamentale per il pensiero di Chatwin e per il nostro discorso: “Canto è esistenza”.
Terra e canto
Poiché non solo per i grandi Greci, non solo per i poeti più metafisici e sublimi della letteratura tedesca moderna e contemporanea, ma anche per gli aborigeni australiani, la vita è intimamente e profondamente legata al canto. Si tratta di un canto essenzialmente legato alla terra, incastonato in essa. Ecco perché Chatwin intitolò il suo libro “The Songlines”, “Le Vie del Canti”, appunto.
Ciò ha reso il rapporto con i conquistatori europei, con l’uomo bianco, difficile, aspro, tortuoso. Almeno quanto quello tra i bianchi europei e gli indiani del Nord America. O, analogamente a quello, tra i conquistatori europei e le popolazioni indie del Centro e del Sud America.
Quasi sempre l’arrivo dell’uomo europeo ha rappresentato, per le popolazioni locali, guerra, sopraffazione, sterminio, malattie, ghetto e sopravvivenza mal tollerata. Con le conseguenze del caso, la marginalizzazione e l’alcolismo, soprattutto.
Il posto delle immagini
In tutt’altro modo era tortuoso il nome di Chatwin. Scrive Chatwin: “Un giorno zia Ruth mi disse che un tempo il nostro cognome era ‘Chettewynde’, che in anglosassone significa ‘sentiero serpeggiante’, e cominciò a germinare nella mia testa l’idea che tra la poesia, il mio nome e la strada ci fosse un nesso misterioso” (“Le Vie dei Canti”, p. 21).
Poiché la fotografia accompagna sistematicamente il viaggio – ciò sia in un grande viaggiatore come Chatwin, sia nel più banale dei turisti – l’editore Adelphi ha pubblicato un libro che raccoglie le fotografie di viaggio di Chatwin. Esso si intitola: “La fotografia vista da Roberto Calasso. Sentieri tortuosi. Bruce Chatwin fotografo” (1998). Il breve e prezioso saggio introduttivo di Calasso si intitola proprio: “Chette-wynde”.
In esso vengono rievocate molte cose interessanti: la vicinanza personale, in cui si tacque sempre di fotografia. Il rapido trasformarsi di Chatwin da scrittore poco amato – cui si rimproverava di scrivere su quaderni moleskine acquistati a Parigi (che sono ora distribuiti commercialmente e presenti in tutte le nostre librerie) – a oggetto di culto.
La sospettosità per il suo essere outlandish, un eccentrico, nonché un esteta. L’atmosfera culturale di quegli anni, in cui fu paradigmatica l’interpretazione che Gilles Deleuze diede di Nietzsche come esempio di pensiero nomade. La rapidità anticipatrice di Chatwin, nell’assegnare al nomadismo la sua dimensione autentica. Il rapporto tra viaggio, immagine e conoscenza, che risale alla notte dei tempi.
Il sentiero degli dèi
Dunque, progressivamente, dalle “Vie dei Canti” veniamo risospinti verso “In Patagonia”. Verso il punto iniziale della ricerca di Chatwin. Perché, uno scrittore ricco di cultura letteraria e di conoscenza, cerca ad un certo punto una forma di liberazione totale? Dopo che tutte le opzioni letterarie sono state esplorate, dopo che il pensiero europeo ha detto tutto il dicibile e anche oltre?
Chatwin capisce ciò che, forse, era sfuggito a Nietzsche. Dioniso è sì il liberatore, ma la liberazione non può avvenire solamente sul piano letterario, ha bisogno del corpo. Come i Greci sapevano, della musica, della danza, dell’eros, della comunicazione con altri uomini. Così Chatwin fa la sua borsa e parte, trovando la sua forma di espressione letteraria e legandola al nomadismo.
Al di là della questione oziosa se egli sia stato veramente grande – certamente è stato uno degli scrittori europei più significativi delle ultime generazioni – è innegabile che i suoi libri hanno rappresentato qualcosa per molti di noi. I suoi libri e, aggiungerei, le sue fotografie. A volte ci si affeziona ad un libro, o ad un oggetto, come ad un feticcio. I giochi dei bambini sanno qualcosa di questo. E ad esso si ritorna, nel tempo, attraverso il trascorrere degli anni.
L’autentico rimpianto è per la dipartita di Chatwin dal nostro mondo, veloce e rapida come tutti gli autentici grandi dell’umanità. Un detto di Menandro, ricordato da Leopardi, dice: “Muore giovane colui che agli dèi è caro”. Basta, allora, osservare uno dei ritratti fotografici di Chatwin, per capire che egli non sarebbe invecchiato mai.