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Bullismo: analisi oltre il suicidio del ragazzo 15enne

A dominare è la legge del più forte, ma di una “forza” che è torbida e sopraffattoria. In chi vince non c’è nulla che sia davvero degno di ammirazione

Ragazzo di spalle_pexels-drago-rapovac

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Come al solito: a dettare i tempi è la cronaca. L’evento estremo e luttuoso del quindicenne che si è tolto la vita a Senigallia. Perché, a quanto sembra, non ne poteva più di essere vittima delle angherie di alcuni compagni di scuola. Il fastidio, giorno dopo giorno, si è trasformato in esasperazione. L’ingiustizia subita si è ribaltata nel senso, sterminato e insormontabile, del fallimento personale.

Così lo ha fatto. Si è impossessato della pistola del padre, che in quanto vigile urbano aveva pienissimo titolo per detenerla, e dopo essersene andato in un posto remoto, un casolare abbandonato, ha messo fine ai suoi tormenti: un colpo alla testa, come ultima e disperata reazione a ciò che gli gravava addosso e di cui non vedeva il modo di liberarsi.

La cronaca ha riferito questo. I media lo hanno amplificato. Aggiungendo ai resoconti qualche tipo di approfondimento, sotto forma di commenti giornalistici a più ampio raggio o di pareri professionali da parte di psicologi o giù di là.

Filo conduttore: il consueto impasto di rammarico e di auspici. Rammarico per il presente e auspici per il futuro.

Ma il vero nodo, e il grande assente, è un altro: è il passato. Il passato… che non passa.

Il bullismo? Una parte del tutto

La sociologia lo insegna: nessun effetto di vasta portata è senza causa. O senza un intreccio di concause che si saldano in un esito complessivo.

Il passato “che non passa” è ciò che è accaduto in precedenza e che oggi perdura, o addirittura si rafforza. Riversandosi nel presente e predisponendo il futuro.

È l’insieme delle cause, dirette e indirette, che ci hanno portati alla situazione attuale. Al crescere, per non dire al dilagare, di questo genere di comportamenti: che non si esauriscono certo nel bullismo scolastico ma si estendono alle altre condotte patologiche dei giovani.

Alcol e droghe. La “cultura” dello sballo. I legami di gruppo che si rinsaldano e si esasperano nell’appartenenza stabile a bande violente o persino criminali. Nel segno, peraltro, di quei vincoli associativi che sono tipici di determinati gruppi etnici, arrivati qui grazie al lassismo in materia di immigrazione.

La priorità è l’affermazione di sé, con ogni mezzo. I confini tra lecito e illecito, tra bene e male, si attenuano fino a scomparire.

A dominare è la legge del più forte, ma di una “forza” che è torbida e sopraffattoria. In chi vince non c’è nulla che sia davvero degno di ammirazione, incentivando a voler acquisire le medesime qualità. I suoi successi, transitori o persistenti, non suscitano rispetto ma semmai invidia. La molla dell’imitazione non è l’essere, ma l’avere. Avere più soldi, con cui sentirsi più potenti. Oppure, in mancanza di quel denaro, più vittime sulle quali scaricare la propria smania irrisolta di salire di livello, benché in maniera distorta e vigliacca.

Non è la sana competizione degli agonisti, dove è degno d’onore chiunque si sia battuto con lealtà e con il massimo impegno, ma uno scontro cinico e senza esclusione di colpi. Ivi inclusi quelli sferrati a tradimento.

Facciamolo, allora. Spostiamo lo sguardo dagli adolescenti a quelli che non lo sono più. E che con gli anni, per un motivo o per l’altro, sono riusciti a emergere.

Devianti. O magari no

Vediamo prevalere atteggiamenti così diversi, se badiamo alla sostanza e non ci lasciamo ingannare dalle cortine fumogene di ciò che è codificato dalla prassi o consentito dalle leggi?

Su, c’è l’imbarazzo della scelta: la contesa politica, la competizione economica, i dibattiti dei talkshow, gli spettacoli tv che sono continuamente imperniati sulla gara, ovvero sull’eliminazione dell’inferiore. Persino quando a essere protagonista è, o dovrebbe essere, un’esperienza artistica e di per sé non competitiva come la musica.

Già. Nei talent si buttano fuori i concorrenti uno dopo l’altro. A Woodstock, per dire, ci si avvicendava sul palco per sprigionare la propria creatività, mica per assicurarsi il Primo Premio a scapito degli sconfitti.

La sintesi è lapidaria: se le nuove generazioni crescono così è perché le stiamo crescendo così.

La sintesi dovrebbe essere anche lampante. Ma farla propria implicherebbe ammettere che questi, a ben vedere, non sono affatto comportamenti devianti rispetto alla società nel suo insieme.

Al contrario: sono comportamenti conseguenti ai modelli, espliciti e sottintesi, che vanno per la maggiore. E che, in innumerevoli forme più o meno ipocrite, vengono ribaditi di continuo: a cominciare dai media. Dalla loro pseudo informazione. Dal loro intrattenimento superficiale.

Il brodo di coltura è questo. Ciò che vi germina, e vi prospera, è l’infezione in corso. Di cui il bullismo è soltanto uno dei sottoprodotti.

Il rimedio fittizio è la viscida retorica del politicamente corretto e dei diritti universali proclamati a tavolino. L’antidoto vero è rafforzare la generalità delle persone, sia in termini di consapevolezza sia, perché no, nella capacità di affrontare i violenti e rintuzzarne le sopraffazioni.

I bulli sono per definizione una minoranza. Per debellarli basterebbe una maggioranza di individui che siano in grado, all’occorrenza, di trattarli come meritano.

Gerardo Valentini – presidente Movimento Cantiere Italia