Cambia il linguaggio degli abbracci dopo il Covid?
Cosa c’è dietro il linguaggio del corpo nel contatto fisico in fondo al tunnel della separatezza
Dicono che un anno e mezzo di virus ci ha disabituati al contatto fisico. C’è chi, sulla stampa, testimonia il disagio provato quando – per effetto delle vaccinazioni o della negatività al virus acquisita dopo averlo contratto – ha potuto finalmente (ri)abbracciare qualcuno al di fuori della cerchia dei conviventi.
Lascia perplessi. Perché il contatto fisico volontario, di cui l’abbraccio è la forma più immediata e diffusa, può essere di due tipi: 1) l’espressione spontanea di un bisogno di comunicazione ravvicinata, tattile, olfattiva; una trasmissione fisica, auspicabilmente bidirezionale, di calore; oppure 2) un gesto formale, dettato dall’uso corrente, un bollino apposto al termine di un momento sociale (incontro, cena, festa…) che spesso include anche sconosciuti. Le due motivazioni sono chiaramente opposte.
L’abbraccio “d’istinto”
Chi è mosso dalla prima è autentico; cerca il contatto, ne ha davvero sentito la mancanza (come tutti si sono profusi in questi mesi a lamentare); perciò ora ci si abbandona con un senso di liberazione, di gratitudine, perché no? di gioia. L’abbraccio cercato è forte, profondo, prolungato, spesso plurimo (un individuo incontra un gruppo e la voglia di contatto fisico dopo tanta astinenza non ammette sequenzialità, tutti abbracciano tutti come nel campo di calcio dopo un goal).
Altro che disagio, ci si può commuovere.
L’abbraccio “d’ufficio”
L’altra modalità è esteriore, di circostanza, spesso espletata guardando altrove. Solo per chi conosce esclusivamente quest’ultima, quel disagio denunciato può essere comprensibile, perché si tratta di ripristinare un gesto che non viene da dentro, è un rituale imposto; e che quindi oggi risente del disuso, richiede un nuovo rodaggio.
Quel che il corpo rivela
In questi giorni ci è dato osservare, addirittura nel medesimo abbraccio, le due diverse posture. E tristemente ci accorgiamo di quanto l’impaccio prevalga, acuito dalla lunga disaffezione al contatto. Ed è di quest’ultimo che voglio parlare.
Ora tocca riabbracciarsi, magari quell’altro se lo aspetta. Ma posso davvero star sicuro? Qual è il percento di scudo vaccinale? E, a prescindere dalle remore sanitarie, stringo? Quanto stringo? non rischiamo qualche improvvido contatto di bacino? Dove poso gli occhi? Allora si osservano quei corpi piegati a libretto, che limitano la superficie di abbraccio all’essenziale delle spalle, badando a tenere il resto, guance comprese, ben discosto.
L’era digitale ci ha allontanati dalla fisicità
Pochi i superstiti del contatto, dell’uso dei cinque sensi. Viene il sospetto che il virus abbia portato allo scoperto una diffusa resistenza fisica già presente ma finora latente, perché dissimulata dalla continua pratica degli incontri e dei commiati. D’altro canto, quell’imbarazzo ci ha accompagnati per tutta la fase più buia della pandemia: non ditemi che darvi di gomito (come ammiccanti compagni di merende) vi piaceva. La proibizione della stretta di mano e dell’abbraccio d’ufficio ha fatto ripiegare molti verso goffi balletti, manine agitate, o – nei casi informali – bacetti lanciati in punta di dita ad occhi strabuzzati, onomatopeici “smack! smack!”, proclamazione anche per iscritto di “abbracci virtuali” (sic!). Quanto più sobrio e profondo sarebbe stato semplicemente accompagnare il saluto verbale guardandosi negli occhi.
Allora, a ben pensarci, una consolazione c’è: per un abbraccio sincero, spontaneo, “fisico”, quanti se ne contavano di quelli “d’ufficio”, indotti dalle circostanze? Quanta insincerità in certi salamelecchi. E dunque, se all’uscita dalla lunga valle dell’astensione la società ci avrà guadagnato il calo delle smancerie, dei baci a doppia guancia con lo sguardo e la testa altrove, forse potremo dare il benvenuto al recupero della trasparenza: quando ci abbracceremo e ci baceremo staremo trasmettendo un po’ di verità.