Caso Cappato, ecco i nefasti effetti di una sentenza ideologizzata
Il radicale assolto dall’accusa di aiuto al suicidio nella vicenda di Dj Fabo: naturale conseguenza del pronunciamento della Consulta e infatti è quello il problema
Il crudo fatto è questo: Marco Cappato, esponente dei Radicali (cui vanno le nostre più sentite condoglianze per la scomparsa della madre), è stato assolto dalla Corte d’Assise di Milano dall’accusa di aiuto al suicidio in relazione al caso Dj Fabo «perché il fatto non sussiste». La sentenza si riferisce all’ormai arcinoto caso di Fabiano Antoniani che, rimasto tetraplegico dopo un incidente stradale, nel febbraio 2017 venne accompagnato dal tesoriere dell’associazione Luca Coscioni a morire in una clinica svizzera.
Il pronunciamento in sé non desta alcuna sorpresa, perché è la naturale conseguenza di un’altra sentenza, quella con cui nel settembre scorso la Consulta, in attesa di un già auspicato intervento del legislatore, ha dichiarato parzialmente incostituzionale l’articolo 580 del Codice Penale: sancendo così la non punibilità di «chi agevola l’esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche o psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli».
Il problema, in effetti, è a monte, e concerne proprio il verdetto della Corte Costituzionale. Tralasciamo pure l’insignificante dettaglio che, dal momento che in Italia vige ancora una cosuccia chiamata separazione dei poteri, non spetta alla magistratura indicare al Parlamento su cosa può o non può, deve o non deve legiferare – né con quali tempi. Tralasciamo anche l’altro piccolo particolare che le Camere avevano il diritto – anzi il dovere di far valere le proprie prerogative, e invece se ne sono pilatescamente lavate le mani.
L’aspetto più grave è un altro, ed è il fatto che la sentenza 242/2019 ha creato un vulnus che, prima ancora che giuridico, è culturale, bioetico e antropologico. Anzitutto, ha rinnegato il dettato del nostro ordinamento secondo cui la vita è un bene indisponibile, come riconosciuto del resto – e in tempi non sospetti – anche dall’ex presidente della stessa Consulta Gustavo Zagrebelsky: ma, soprattutto, come sancito dal codice civile, da quello penale e, nello spirito, anche dall’art. 2 della Costituzione. Aprendo così una sorta di crepa nella diga che inevitabilmente produrrà quelle derive già verificatesi in Paesi come l’Olanda, il Belgio o il Canada.
In secondo luogo, riferendosi al (presunto) diritto di autodeterminarsi, la Corte ha ignorato totalmente che le decisioni motivate dalla sofferenza non sono mai veramente “libere” né “consapevoli”.
E, oltretutto, en passant ha praticamente affermato l’esistenza di “vite di serie B”, quelle dei più deboli e vulnerabili, di cui viene ricusato il valore di intrinseca dignità che invece, toghe o non toghe, attiene e pertiene a ogni essere umano indipendentemente dalla sua efficienza o funzionalità. Valore che richiederebbe piuttosto investimenti molto più concreti sugli hospice, sulla terapia del dolore, sulle cure palliative – sull’eliminazione cioè della sofferenza – anziché un’acritica genuflessione a quel nadir della “cultura dello scarto” rappresentato dalla “cultura” della morte, di cui il partito che fu di Marco Pannella è il perfetto utile idiota.
Ecco perché l’esultanza di Cappato va ben oltre la possibilità di continuare impunemente a svolgere il suo ruolo di vice-mastro Titta: perché nella sua ansia di sottomissione all’ideologia tanatologica l’esponente dei Radicali è riuscito a ottenere perfino di più. Ha provocato l’eutanasia della giustizia.