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Caso Telegram, perché è l’ennesimo attacco alla libertà d’espressione

L’arresto pretestuoso di Durov, Presidente del servizio di messaggistica, prova che il DSA della Ue è una norma liberticida: il cui obiettivo è censurare chi, come pure Musk, rifiuta il politically correct

Pavel Durov, protagonista del caso Telegram

Pavel Durov (immagine dalla sua pagina Facebook)

In quello che giornalisticamente è divenuto noto come “caso Telegram” c’è molto più di quanto appaia a un primo sguardo. L’arresto di Pavel Durov, fondatore del servizio di messaggistica istantanea (poi rilasciato su cauzione), è infatti solo la punta dell’iceberg. Sotto la superficie, però, si cela l’ennesimo attacco alla libertà d’espressione da parte dei manutengoli del pensiero unico.

Pavel Durov, protagonista del caso Telegram
Pavel Durov (immagine dalla sua pagina Facebook)

Il caso Telegram

«L’arresto del Presidente di Telegram sul territorio francese è avvenuto nell’ambito di un’indagine giudiziaria in corso. Non è in alcun modo una decisione politica». Così, come riporta l’ANSA, ha cinguettato il Presidente transalpino Emmanuel Macron. Aggiungendo che, in uno Stato di diritto, «le libertà si esercitano in un quadro stabilito dalla legge per proteggere i cittadini e rispettare i loro diritti fondamentali».

In questa excusatio non petita, l’espressione chiave è «établi par la loi», che per Monsieur le Président è il cosiddetto diritto positivo. Quello creato artificialmente dallo Stato che, costitutivamente, è soggetto a mutamenti anche profondi in quanto è relativo a un tempo e un luogo assai specifici. E che, sempre costitutivamente, ha a suo presupposto il diritto naturale, i valori assoluti inscritti dalla natura (o, per chi crede, da Dio), nel cuore dell’uomo.

Emmanuel Macron
Emmanuel Macron (immagine dalla sua pagina Facebook)

Venendo all’affaire Durov, ciò a cui l’inquilino dell’Eliseo faceva implicitamente riferimento è il Digital Services Act. Il Regolamento Ue pensato per combattere discorsi d’odio e disinformazione online, se non fosse che è Bruxelles a stabilire arbitrariamente cosa sia hate speech o fake news.

Digital Services Act, Elon Musk
Digital Services Act (© Transparency.dsa.ec.europa.eu)

Da questa sorta di “Ministero della Verità” di orwelliana memoria discendono i dodici capi d’imputazione emessi, scrive TGCom24, dalla Procura di Parigi nell’ambito del caso Telegram. I quali dipenderebbero dall’assenza di moderazione negli scambi e dal rifiuto di cooperare con le euro-autorità competenti. E includono crimini quali traffico di stupefacenti, vendita di armi, frode, pedopornografia, cyberbullismo e perfino promozione del terrorismo.

Riproduzione del “Ministero della Verità” di 1984, Digital Services Act, neolingua, Elon Musk
Riproduzione del “Ministero della Verità” di 1984 (© Jordan L’Hôte / Wikimedia Commons)

Accuse pretestuose

Queste ipotesi di reato appaiono come minimo pretestuose, non foss’altro perché è ridicolo incarcerare il numero uno di una piattaforma per il comportamento degli utilizzatori. Seguendo questo “ragionamento”, andrebbe recluso anche il papà del coltello perché qualcuno ha utilizzato la sua invenzione con finalità illecite. Senza contare che, se si fa coincidere col misfatto l’infrastruttura stessa, diventa pressoché impossibile per il patron difendersi (com’è diritto inalienabile di ognuno) da accuse inevitabilmente vaghe.

Logo di Telegram. Caso Telegram
Logo di Telegram (© Telegram FZ LLC / Wikimedia Commons)

Quanto alla collaborazione con le forze dell’ordine, la cronaca evidenzia come sia tutto, tranne che ostacolata. Quindi la vera questione riguarda la riservatezza delle comunicazioni anche, se non soprattutto, nei confronti del “Grande Fratello” istituzionale. Un aspetto cruciale, per esempio, in quei Paesi retti da regimi dittatoriali, nei quali i dissidenti politici non hanno altro modo per far sentire la propria voce.

Big Brother is watching you. Caso Telegram
Big Brother is watching you (screenshot dal canale YouTube di Aperture)

Peraltro, non si capisce perché all’azienda con sede a Dubai debba essere riservato un trattamento “speciale”. A livello di privacy, come ricorda il Corsera, nel 2016 Apple non volle aiutare l’FBI a sbloccare l’iPhone di uno degli attentatori della strage di San Bernardino. E Meta ha enormi problemi di abusi sessuali su minori (e non solo, come dimostra lo scandalo Cambridge Analytica).

Mark Zuckerberg
Mark Zuckerberg (immagine dalla sua pagina Facebook)

Nessuna conseguenza per il Ceo Mark Zuckerberg, però, «perché censura il free speech e garantisce ai Governi l’accesso non autorizzato ai dati degli utenti». Questa la spiegazione che, come rileva il New York Post, ha perfidamente fornito il rivale Elon Musk.

Col caso Telegram si vuole censurare chi rifiuta il politically correct

L’imprenditore sudafricano aveva denunciato un analogo tentativo di ricatto da parte della Commissione Europea, che minacciava sanzioni che potevano arrivare fino alla chiusura di X. Intimidazione reiterata più recentemente, in occasione dell’intervista a Donald Trump bollata (prima ancora della messa in onda) come veicolo di «contenuti dannosi».

L’intervista di Elon Musk a Donald Trump
L’intervista di Elon Musk a Donald Trump (screenshot da un video sull’account X – ex Twitter – di Donald Trump)

In entrambe le circostanze (e benché l’ultima, paradossalmente, riguardasse le Presidenziali Usa), i mandarini comunitari hanno cercato di far leva proprio sul DSA. Di cui dunque il caso Telegram ha solo confermato il carattere di norma liberticida, tipica di un’altra Unione a cui quella Europea tende sempre più ad assomigliare.

Bandiera dell’Europa con falce e martello
Bandiera dell’Europa con falce e martello (© liftarn / Openclipart)

D’altronde, come ha puntualizzato l’ex candidato alla Casa Bianca Robert F. Kennedy Jr., «Governi e oppressori non censurano le menzogne. Non hanno paura delle bugie. Temono la verità, ed è questa che censurano».

Robert F. Kennedy Jr. Caso Telegram
Robert F. Kennedy Jr. (immagine dalla sua pagina Facebook)

Vedasi, a titolo meramente esemplificativo, il temporaneo quanto patetico ban dell’hashtag olimpico #XX attuato, come notava The Post Millennial, da Facebook. Che a quanto pare ritiene una violazione degli standard della community deplorare l’intrusione negli sport femminili di uomini biologici come i pugili Lin Yu-Ting e Imane Khelif.

Risulta allora meno ipocrita l’ex Premier Paolo Gentiloni che, con una voce dal sen fuggita, ha ammesso di considerare i social network un rischio per la democrazia. O, per dirla in altri termini, c’è che il bavaglio solletica una certa libido del mainstream – purché, ça va sans dire, sia funzionale alla narrazione politically correct.