Cinema e Filosofia: la danza tra l’immagine e il concetto
Il rapporto tra cinema e filosofia può avere una declinazione positiva, anche grazie a pensatori come Gilles Deleuze. Oppure profondamente negativa, con pensatori come Adorno e Horkheimer
Il rapporto tra cinema e filosofia può essere letto sotto diversi punti di vista. Esso può avere una declinazione positiva, anche grazie a pensatori come Gilles Deleuze. Oppure profondamente negativa, anche grazie a pensatori come Adorno e Horkheimer che, alla metà degli anni quaranta, scrissero, nella “Dialettica dell’illuminismo”, memorabili riflessioni sull’industria culturale.
L’occhio dell’Apocalisse
Certamente Walter Benjamin, il maestro di Adorno – di cui sono da poco trascorsi gli ottant’anni dalla morte, avvenuta a Portbou nel settembre 1940 – aveva, sul tema, maggiori margini di positività. Inflessibile, invece, Adorno.
Nell’aforisma 5 di “Minima Moralia”, risalente al 1944 ma che Adorno pubblicò nel 1951, troviamo infatti la frase: “Da ogni spettacolo cinematografico, m’accorgo di ritornare, nonostante ogni vigilanza, più stupido e più cattivo”. E, se è possibile, occorre ascoltare maggiormente la condanna senza appello di Adorno, piuttosto che le aperture di Benjamin e Deleuze. Se si tiene alla critica, in cui il pensiero filosofico dovrebbe consistere, piuttosto che alla conciliazione a buon mercato.
Questo per quanto concerne l’interrogativo relativo al cinema come forma d’arte, come espressione estetica autonoma. Per non parlare di tutte quelle volte che il cinema ha costretto, nelle sue forme, espressioni artistiche e umane di natura completamente differente. Fallendo inevitabilmente. Forse l’unico caso in cui, la meditazione sul cinema diviene oggetto di pensiero, è quando si incontra con la psicoanalisi.
Cinema e filosofia: il caso Bruno
Per quanto concerne cinema e filosofia, nel senso che il tema relativo alla filosofia è fatto oggetto di attenzione esclusiva da parte del cinema, troviamo opzioni interessanti. Escludendo i lavori dell’ultimo Rossellini su Socrate, Cartesio e Pascal dell’inizio degli anni ’70, poiché progettati per la televisione e non per il grande schermo.
Dal nostro punto di vista, allora, tre pellicole sono meritevoli di essere meditate.
Il primo è il film di Giuliano Montaldo su Giordano Bruno del 1973, dall’omonimo titolo, che vede come protagonista Gian Maria Volonté.
Montaldo e Volonté hanno avuto la capacità di restituire la vicenda di Bruno, – arso vivo in Campo de’ Fiori il 17 febbraio 1600, per volontà della Congregazione del Sant’Uffizio – in tutta la sua pienezza. Non un rivoluzionario, non un mago o, almeno, non questo soltanto, Bruno ha la ventura di utilizzare la filosofia come strumento di radicale rinnovamento, morale ma non solo. Scontrandosi con la durezza dell’Inquisizione, che non ammetteva deroghe alla sua logica.
Il caso Nietzsche
Il secondo è il film di Liliana Cavani su Nietzsche, Lou von Salomé e Paul Rée, intitolato “Al di là del bene e del male” (1977). Il titolo si ispira alla grande opera di Nietzsche del 1886, tra le sue più radicali ed estreme. La vicenda, come sanno gli studiosi e gli amanti del genere, ha preso forma in un volume significativo per i lettori italiani. Si intitola “Triangolo di lettere” (Adelphi) e raccoglie l’epistolario, commentato, che i tre si scambiarono nel periodo della loro amicizia.
Nato in appendice alla grande edizione storico-critica delle opere di Nietzsche (sebbene l’edizione tedesca abbia origini più lontane, risalenti alla stessa Salomé), curata da Giorgio Colli e Mazzino Montinari, in lingua tedesca, italiana (per l’editore Adelphi), francese e giapponese. Il film della Cavani ha il pregio di mostrarci Nietzsche come uomo, se non felice almeno come vivo e questo in un filosofo che dà l’impressione di aver risolto tutta la sua vita nell’opera, con le catastrofiche conseguenze del caso.
Grazie a una donna eccezionale, la russa Lou Salomé, che sarà musa anche di Rilke e di Freud, contesa tra Nietzsche e Rée, il filosofo che si preparava a comporre “Così parlò Zarathustra”, sperimenta il riso e la leggerezza. I tre si inseguono per l’Europa, danno scandalo, si vogliono bene, assaporando il sapore della libertà, esperienza mai scontata nella vita umana.
Il più forte culturalmente e filosoficamente, Nietzsche, perde sul piano sentimentale e personale, avviandosi verso l’autodistruzione. Gli altri due, che vivranno una vita più normale, dovranno in buona parte a Nietzsche, il persistere della loro fama. Non è un caso che ci sia voluto uno sguardo femminile, quello della Cavani, per mettere in luce la gioia che la presenza di Salomé aveva costituito per la vita del grande filosofo.
Il caso Arendt, la filosofia e la Shoah al cinema
Il terzo e ultimo film, per quanto concerne la costellazione ermeneutica cinema-filosofia, è la pellicola di Margarethe von Trotta, “Hannah Arendt”, del 2012. Una bella e promettente giovane pensatrice incontra, negli anni ’20, il signore assoluto della filosofia europea, Martin Heidegger. Lui è prossimo al nazismo, lei è ebrea. Ne nascerà un amore lungo una vita.
Lui, che non sarebbe mai sceso in campo in nome dell’ebraismo, della polis o dell’amore, mette lei nelle condizioni per farlo. In occasione del processo al criminale nazista A. Eichmann, quando Arendt scrisse “La banalità del male” (1963, ed. it. Feltrinelli), la polemica – ma anche la consacrazione – è, per la ormai matura Hannah, di livello mondiale.Ma i due vivono, anche, uno in funzione dell’altro.
Lei è bella, famosa, capace di sostenere micidiali polemiche, innamorata di suo marito e del suo popolo. Ma ha bisogno di tornare a casa dai maestri, tra cui c’è anche Karl Jaspers. In quella Germania che ha prodotto il mostro, ma anche riflettuto sulla cura.
Lui è lì: inarrivabile, degno di Kant e Hegel, il maestro assoluto della sua epoca, che non pensava di dovere le sue scuse a nessuno, perché un vincitore assoluto non chiede scusa nemmeno al mondo. Eppure ancora capace di emozionarsi per quella ragazza innamorata di Agostino.
In quella meravigliosa testimonianza che è il loro carteggio cinquantennale, pubblicato in italiano da Einaudi, le ragioni dei sentimenti si fanno più chiare. H. G. Gadamer ha detto nel 2001, in un’intervista su “Repubblica” a Franco Volpi e Antonio Gnoli, che Heidegger era rimasto con la moglie Elfride, perché lei sapeva organizzare quel ménage in cui lui poteva essere quello che era. Dall’acquisto della famosa Baita all’organizzazione della vita quotidiana di un grande pensatore e di un grande professore.
Ma Heidegger poteva scrivere ad Hannah Arendt cose che, probabilmente, Elfride non era in grado di capire, neanche con una spiegazione apposita. Il film di Von Trotta su Hannah Arendt ha il pregio di restituire qualcosa di questo clima irripetibile. Qual è, allora, il vantaggio di scrutare i filosofi attraverso la macchina da presa? Quello di osservarli in un’immagine vivente, non consentita dalle biografie.