Cosa c’è dietro i licenziamenti al Teatro dell’Opera di Roma?
Ne parliamo con Umberto Croppi, ex assessore alla Cultura di Roma Capitale nei primi anni della gestione Alemanno
Il licenziamento collettivo potrebbe essere confermato per i 182 membri dell’orchestra e del coro dell’Opera di Roma, almeno stando a fonti sindacali rese note nella giornata di ieri. Una storia senza fine, sembra, quella del Teatro dell’Opera di Roma, dal giorno in cui Riccardo Muti ha lasciato, fino ai licenziamenti. Ne parliamo con Umberto Croppi, ex assessore alla Cultura di Roma Capitale, rimasto in carica fino all’azzeramento della Giunta Alemanno nel 2011, e direttore generale della Fondazione Valore Italia.
Croppi, partiamo dai licenziamenti.
“Tutta la vicenda del Teatro dell’Opera non è stata ben spiegata fino ad ora. Questo è il punto finale di una situazione, a livello economico e gestionale, che non poteva reggere oltre. E l’abbandono di Muti, che non si è dimesso da niente, dal momento che non aveva alcuna carica ma solo un impegno contrattuale per due rappresentazioni, che però se ne è accorto in tempo, ha scoperchiato il vaso di Pandora. Il Teatro dell’Opera ha dei problemi risalenti nel tempo, che si sono acuiti negli ultimi anni della gestione Alemanno. Siamo passati da 7 milioni a 21 milioni l’anno di finanziamento, una situazione assolutamente insostenibile. E nonostante questo, si è riusciti ad accumulare un debito di 28 milioni di euro. Un intervento radicale andava fatto”.
Perché si è arrivati a questo?
“Alcuni amministratori hanno esagerato con le proprie prerogative e hanno gestito male le risorse”.
Ci spieghi meglio.
“Poche produzioni, costi di gestione altissimi: spese folli senza però aumentare la qualità delle produzioni. Ma c’è anche un altro aspetto, quello relativo alle sigle sindacali, non tutte ovviamente, e i licenziamenti ne sono una prova. Le sigle sindacali hanno chiesto sempre di più, fino a che, 2 anni fa, siamo arrivati a nuove assunzioni, con un organico già eccessivo, perché non parliamo solo di orchestrali e coristi. Sia chiaro: al Teatro dell’Opera ci sono delle maestranze che sono eccellenze a livello mondiale, ma c’erano anche dei nullafacenti, la cosa è stata confermata anche da un sindacalista a RomaUno Tv, non lo sto dicendo io”.
E quindi?
“E quindi, parenti che venivano assunti, e così via. Pertanto, la scelta di cambiare il rapporto con gli orchestrali è stata una necessità, altrimenti si sarebbe dovuto chiudere il Teatro e ripartire da zero. Perché non c’entra tanto il fatto, che comunque ha pesato, dei costi delle indennità o delle diarie per le trasferte, quanto il problema delle sostituzioni. Se un orchestrale sta male, viene sostituito e se il sostituto supera un certo numero di giorni di attività, deve essere pagato come se avesse lavorato tutto l’anno. Questo meccanismo delle sostituzioni veniva programmato in maniera che alla fine dell’anno gli orchestrali raddoppiavano. La scelta del sovrintendente Fuortes è stata quella di dire: ‘Non vi mandiamo via, ma cambiamo il tipo di rapporto’. In buona sostanza, gli orchestrali si sarebbero dovuti costituire per conto loro, magari con un’associazione, erogarsi da sé gli stipendi, mentre il Teatro avrebbe pagato la prestazione. In questo modo si compra il servizio e si dà un freno al meccanismo perverso delle sostituzioni”.
Quindi è una scelta che può funzionare?
“Non basterà, serviranno altre forme. Ma questo era il primo segnale, un segnale che andava dato”.
Quali sono queste altre forme?
“Non lo so, non vorrei essere nei panni di Fuortes. Ma se non si taglia almeno un’altra decina di milioni di euro, e se non migliorano le produzioni, la situazione non si risolleva”.
Più volte ha fatto riferimento alla qualità delle produzioni. Ci sono quindi responsabilità artistiche?
“Quando parlo di qualità delle produzioni, intendo riferirmi ad un problema gestionale. Il Teatro dell’Opera di Roma produce meno della metà di qualsiasi altro Teatro dell’Opera al mondo. Quando parlo di qualità, non parlo di qualità delle esecuzioni, ma di quella delle produzioni sul piano industriale. L’Opera non deve limitarsi a comprare prodotti realizzati e confezionati da altri, la sua forza si misura nella capacità di produrre. Non stiamo parlando di un teatro di provincia”.
A quali conseguenze ha portato tutto questo?
“Sul piano della gestione economica, tutto questo ha comportato una limitata capacità di attrarre soci privati e di aumentare la bigliettazione, poiché tutti erano a conoscenza della situazione. Ora serve lo sforzo di razionalizzare, di migliorare le produzioni e rientrare nel circuito degli sponsor. La Scala ha un bilancio molto più alto, grazie anche ai soldi dei privati”.
Quali altri esempi virtuosi ci sono in Italia ai quali l’Opera di Roma potrebbe o dovrebbe guardare?
“Mi viene in mente la Fenice. La sovrintendenza Chiarot, che avevo indicato come sovrintendente a Roma, sta eseguendo delle performances eccellenti, ha raddoppiato spettatori e produzioni”.
Un’ultima domanda: Muti dovrebbe ripensarci e tornare?
“No, ha già fatto la sua scelta”.