Covid-19, arriva il test che misura l’intolleranza al vaccino
Con un test del sangue potremmo stabilire il grado di protezione della popolazione e selezionare chi e quando necessita di un’ulteriore protezione con la vaccinazione
Le continue ondate di Covid ci hanno insegnato che esistono persone che sono soggette a infettarsi o re– infettarsi più volte. Sono soggetti che necessitano di nuove dosi di vaccino dopo pochi mesi. Ma è innegabile che ne esistono altre che mantengono la risposta immunitaria molto più a lungo.
Capire perché non tutti riescono a mantenere alta la risposta immunitaria necessaria a riconoscere ed eliminare il virus in tutte le varianti per il momento rimane una speranza. Per la scienza occorre capire come e perché ci sono persone che possono avere una risposta immunitaria contro il virus SARS-CoV-2 più forte e duratura che in altre.
Conoscere la risposta immunitaria di ogni persona consentirebbe anche una gestione più snella e coerente del ricorso a ulteriori richiami o dosi booster.
Un test italiano per misurare gli anticorpi
I ricercatori dell’IRCCS di Candiolo sono partiti dal presupposto che la reazione immunitaria specifica è composta da due tipi di cellule, i linfociti B e i linfociti T.
I primi (B) sono responsabili della produzione di anticorpi, i secondi (T) del riconoscimento e dell’eliminazione delle cellule infettate. Valutare e misurare la presenza di linfociti T reattivi è fondamentale per capire se una persona è ancora protetta dal contagio.
Fino ad oggi quantificare la presenza di queste cellule era molto difficoltoso.
È svolta in questo scenario la ricerca degli studiosi dell’IRCCS di Candiolo, con l’Italian Institute for Genomic Medicine (IIGM), presso il laboratorio Armenise-Harvard di Immunoregolazione.
Un semplice test del sangue in grado di superare i limiti degli attuali test sierologici. Il test sierologici oggi non sono in grado di determinare il livello e la durata dell’immunità al virus Sars-CoV-2.
Questo test consiste nella quantificazione i linfociti T della memoria, permettendo di verificare se il sistema immunitario è ancora “armato” contro il virus o se ha bisogno di essere potenziato con una nuova dose del vaccino.
“Avere gli anticorpi non significa per forza essere protetti dall’infezione, perché nel tempo questi calano e non sono sufficienti a proteggere dal contagio, ragione per cui si è optato per la dose booster – spiega Luigia Pace, responsabile di questa ricerca presso l’IRCCS di Candiolo Laboratorio di Immunologia Oncologica e responsabile del Laboratorio di Immunoregolazione presso l’IIGM, tra gli autori dello studio”.
“Nel nostro studio, condotto su oltre 400 soggetti, sottoposti a vaccino mRNA, abbiamo analizzato la reazione immunitaria contro il virus, cioè le risposte delle cellule B che producono gli anticorpi, e la risposta dei linfociti T fino a 10 mesi dopo la vaccinazione” -precisa Pace.
Una nuova arma per i medici?
In futuro, poter capire se si è in possesso di queste cellule sarà utile per stabilire il grado di protezione della popolazione generale, ed in particolare dei soggetti più fragili e selezionare chi e quando necessita di un’ulteriore protezione con la vaccinazione.
Stando alla ricerca alcune persone hanno una maggiore capacità di neutralizzazione del virus rispetto ai soggetti che presentano una bassa risposta. È importante sottolineare che i soggetti a bassa risposta risultano meno protetti contro la malattia COVID-19, causati dalle varianti Delta e Omicron, anche dopo il ciclo completo di vaccinazione.
“Nell’insieme, questi risultati dimostrano che le cellule T di memoria specifiche e con proprietà poli-reattive contro le varianti, sono determinanti nella riduzione del rischio di infettarsi con le varianti Omicron e sviluppare il Covid-19 conclude l’esperta”.