Covid-19, lo studio: soggetti allergici sviluppano forma meno grave di malattia
Lo studio che ha sorpreso: i soggetti allergici sviluppano generalmente una forma meno grave di Covid-19 grazie alla risposta immunitaria Th2
Covid-19 e soggetti allergici, la ricerca che ha sorpreso. “Lo studio multicentrico è coordinato da Enrico Scala (IDI-IRCCS – FLMM, Roma) e Riccardo Asero (Clinica San Carlo, Paderno Dugnano – Milano).
Lo studio ha dimostrato che, tra i pazienti ospedalizzati per Covid-19, i soggetti allergici sviluppano una forma meno grave di malattia.
L’articolo è stato pubblicato su Allergy, la rivista scientifica dell’Accademia Europea di Allergologia e Immunologia“. Lo comunica, in una nota, l’Idi. L’infezione da SARS-CoV-2, si legge, può indurre un ampio spettro di conseguenze che vanno dall’infezione asintomatica a forme di polmonite estremamente grave.
Covid-19 e soggetti allergici, la risposta Th2
In alcuni casi viene indotta una cosiddetta tempesta citochinica, cui segue un vera e propria auto-aggressione del sistema immunitario. Con produzione di elevatissimi livelli, tra gli altri, di IL-6, in grado di generare una sindrome da distress respiratorio acuto (ARDS) ed una insufficienza multiorgano, il cui risultato finale è la morte. I pazienti allergici sono geneticamente predisposti a generare una risposta immuno-mediata di tipo differente: Th2. Questa risposta non implica l’espressione delle principali citochine coinvolte nell’ARDS.
Abbiamo pertanto ipotizzato che i pazienti allergici potrebbero essere meno inclini all’infezione da SARS-CoV-2 e/o potrebbero avere un’infezione da SARS-CoV-2 meno grave. Abbiamo perciò studiato retrospettivamente più di 500 pazienti ricoverati tra Marzo e Aprile scorso nei principali ospedali del Nord Italia, dimostrando che, effettivamente, i soggetti atopici avevano un’incidenza significativamente minore di polmonite grave o molto grave indotta da SARS-CoV-2 (33,3% vs 67,7% nei pazienti non allergici).
L’effetto protettivo dello stato atopico non dipendeva dall’età o dal sesso dei pazienti. Né dalla presenza di altri cofattori, come il fumo di sigaretta, la malattia coronarica, il diabete, la trombosi o l’ipertensione.
L’evidenza clinica rende pertanto verosimile la nostra ipotesi iniziale. Quella secondo cui la predisposizione ad una risposta immunitaria Th2 potrebbe aiutare ad evitare la tempesta citochinica osservata nei casi più gravi di COVID-19.
La ricerca è stata realizzata dai clinici dell’IDI-IRCCS: Enrico Scala, Damiano Abeni, Mauro Giani e Antonio Sgadari, in collaborazione con Alberto Tedeschi e Francesca Saltalamacchia (Ospedale Bolognini ASST, Bergamo), Giuseppina Manzotti (Casa di Cura Palazzolo, Bergamo), Baoran Yang (ASST Carlo Poma, Mantova), Paolo Borrelli (Ospedale Beauregard, Aosta), Alessandro Marra (ASST Rhodense – P.O. Rho – Mi) e Riccardo Asero (Clinica San Carlo, Paderno Dugnano – MI).
Più melanomi gravi e diagnosi tardive durante il lockdown
Più melanomi gravi e nuove diagnosi tardive, a rivelarlo è uno studio condotto da medici e ricercatori dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata (IDI) al termine del periodo di lockdown e pubblicato sulla rivista internazionale Journal of the European Academy of Dermatology and Venereology. All’inizio di giugno 2020, in seguito all’osservazione clinico-epidemiologica tenutasi presso la Melanoma Unit dell’IDI di Roma diretta dal dott. Francesco Ricci, sono stati riscontati numerosi nuovi casi di melanomi di grado severo. 158 sono stati i giorni del periodo dello studio, 237 i nuovi casi di melanoma riscontrati: il numero medio di nuove diagnosi è stato 2,3/giorno nella fase pre-lockdown (in linea con le nuove diagnosi giornaliere osservate nel 2018 e nel 2019 presso il nostro Istituto), 0,6 durante il lockdown e 1,3 subito dopo il lockdown.
Lockdown e ritardo diagnostico
“Con questo studio- afferma il dottor Damiano Abeni “abbiamo voluto verificare se il lockdown italiano, potesse aver causato un ritardo diagnostico delle nuove diagnosi di melanoma. Ed abbiamo osservato un aumento significativo della gravità dei nuovi casi di melanoma diagnosticati dopo la fine del lockdown.
Questo aumento è stato evidente sia per quanto riguarda lo spessore di Breslow (che nel melanoma rappresenta il principale fattore prognostico), sia per le caratteristiche cliniche delle lesioni (con una maggiore proporzione di melanomi nodulari, ulcerati e/o con una componente di crescita nodulare). Essenzialmente con un raddoppio dei valori per queste tipologie di melanoma.
Osservando lo spessore di Breslow si è apprezzato un aumento significativo dello spessore medio: da 0,88 nel pre-lockdown a 1,96 nella fase post-lockdown. Tuttavia, la percentuale di melanomi meno severi (in situ) non è cambiata nelle tre fasi pandemiche (circa 24%) ed è molto vicina ai valori osservati per il 2018 (23,8%) e per il 2019 (26,4%).
Questo dato potrebbe essere spiegato dal fatto che proprio i pazienti con melanomi più severi abbiano ritardato lo screening cutaneo durante il lockdown. Il ritardo diagnostico ha riguardato prevalentemente soggetti di sesso maschile di età pari o superiore a 50 anni“.