Covid 19. Una dura lezione: inadeguati sia come Stato, sia come singoli
Appellarsi alla fatalità è un alibi sciocco. Il virus è la causa accidentale che ha smascherato i tantissimi vizi preesistenti
Deboli. Impreparati. Mediocri come al solito. I capintesta più boriosi che mai. I cittadini-sudditi molto più emotivi che intelligenti. Tanto più emotivi, e omologati, quando si illudono di essere lucidi e saldissimi perché aderiscono con fervore alle versioni ufficiali. Pronti a denunciare chi sgarra, o quantomeno a osservarlo con riprovazione. Indossando le mascherine – le mascherine talismano – persino in auto e da soli: chi temono di infettare? Lo stereo? Il climatizzatore? L’alberello o il pupazzetto del deodorante?
Si potrebbe continuare a lungo, tirando le somme dei filmati d’insieme e dei singoli fotogrammi. Ricavando i dovuti insegnamenti dalle reazioni individuali e collettive delle ultime settimane. Nell’Italia dell’emergenza. Del Nemico Invisibile. Dei diktat roboanti e perentori scanditi a getto continuo dai governanti nazionali e locali: teste da caporalmaggiori ma atteggiamenti da Comandanti Supremi.
Tuonano “tutti a casa” e si inorgogliscono come se avessero pronunciato un ordine intelligentissimo e risolutivo. Impongono il loro ordine da questurini e si atteggiano a Benefattori. A leader impavidi e quanto mai responsabili. Ad angeli custodi del bene comune.
Pretese di ubbidienza: infinite.
Spunti di consapevolezza: zero.
L’immunità di gregge evocata da Boris Johnson è stata schernita. Uh, che sciocchezza. L’acquiescenza del gregge democratico (e televisivo) viene esaltata. Ah, che maturità.
Nessuna discontinuità, in questo. L’unica novità, si fa per dire, è che certe caratteristiche e certi vizi sono diventati più evidenti. In condizioni normali ristagnano nelle paludi dell’abitudine. In circostanze anomale, e più che mai drammatizzate sia dalle autorità sia dalla grancassa mediatica, tracimano come onde di piena e dilagano ovunque.
Almeno su questo non può esserci alcun dubbio: al Covid 19 siamo arrivati impreparati per il semplice e fatale motivo che non avevamo fatto un accidente per essere pronti. Okay: diciamo che il virus in sé era imprevedibile, ma è tutt’altro che un alibi. Il problema non è il fattore specifico. È il modo in cui ci si è fatti trovare, e sorprendere, da qualcosa che eccedesse gli standard dell’ordinario.
La parola chiave è quella con cui è iniziato questo articolo.
La parola chiave è “deboli”. Sul piano sanitario, con le carenze degli ospedali spaventosamente, follemente, colpevolmente a corto di posti in terapia intensiva (e non solo). Sul piano economico, con il colossale indebitamento dei conti pubblici e la parallela rinuncia alla sovranità monetaria. Sul piano mediatico, con i principali canali radiotelevisivi che seminano stupidità e conformismo da decine di anni e con le testate più note che sono appiattite, e non certo da oggi, su riflessioni di facciata che non vanno mai al cuore del problema: ossia l’asservimento dei popoli alle logiche disumane dello sviluppo infinito e del massimo profitto.
Sul piano psicologico ed esistenziale: perché la maggior parte di noi è addestrata a sopportare ogni tipo di imposizione passiva, a cominciare dal traffico e dalla ressa negli ipermercati, ma scappa a gambe levate da qualsiasi disciplina attiva, sia essa fisica o mentale. Dalle diete alla cultura, o sedicente tale, la parola d’ordine è che deve essere tutto facile, poco o per nulla faticoso, sempre e comunque accattivante.
User friendly. Touch & play. Happy ending.
Soprattutto ending.
Contrordine, cari
Esamino di coscienza, mentre si continua ad attraversare con somma incertezza la Fase Uno dell’allarme da Coronavirus?
Primo segnaccio blu: ma quale esamino? Esame! E-sa-me. Così fissiamo all’istante un concetto decisivo, che potrebbe sembrare marginale (e già questo la dice lunga) mentre invece non lo è per niente: i diminutivi ci fottono. I vezzeggiativi pure. Le cazzate, le superficialità, le approssimazioni di ogni ordine e grado ci intossicano come e peggio delle schifezze che respiriamo e che ingurgitiamo.
Prendete la fanfaluca della “leggerezza”, in particolare. Una super corbelleria spacciata per saggezza. E che infatti viene ripetuta a pappagallo. Non è che hai il sano distacco dell’ironia. È che hai la vacuità dello spettatore tv, del piluccatore di buffet mediatici imbanditi da altri, del quarto dei Quattro cani di cui cantò De Gregori nel remotissimo Rimmel del 1975: quello che “ha un padrone / Non sa dove andare, comunque ci va”.
Eccola qua – eccola subito – la differenza fondamentale. Avere una rotta, o almeno una direzione, oppure non averla.
Se hai una rotta navighi.
Se non ce l’hai vaghi. Più o meno alla deriva.
Ancora prima: se hai una barca che tiene il mare hai qualche buona probabilità (probabilità, non certezza: la vita non prevede nessuna certezza; e chi non lo capisce è un cretino, chi non lo accetta è un vigliacco) di restare a galla e di poter proseguire il tuo viaggio.
Già: ti sei preoccupato di come è fatta la tua imbarcazione? L’hai progettata con cura? O se non altro hai cercato di copiare un modello altrui che meritasse, appunto, di esserti d’esempio e di sollevarti dall’onere di inventarne tu stesso le caratteristiche e le finalità?
Non date retta a chi vi dice il contrario: navigare in prima persona non è affatto un diritto universale. Al massimo lo è salire a bordo da passeggeri (e occhio a dove vi portano, occhio a chi è l’armatore e a chi c’è al timone, occhio a quanto e a come pagherete il biglietto).
Il Covid-19, anche a voler prendere per buono ciò che ci raccontano, è l’equivalente di una tempesta. Impossibile uscirne indenni, sulla flotta di canottini da bancarella con cui siamo avvezzi a sguazzare a cinque metri dalla riva.