Cucchi “morto di dolore”. E nel processo spunta una teste
La parte civile accusa il silenzio dei tre agenti di Polizia Penitenziaria
LO SCHIAFFO DEL SOLDATO. “Stefano Cucchi è morto di dolore perché il suo cuore non ha più retto. Un dolore costante e crescente dovuto a un pestaggio, non premeditato ma d'impeto, avvenuto sei giorni prima in una cella di sicurezza del tribunale poco prima del suo ingresso in aula per la convalida dell'arresto. E come facciamo a slegare questo dolore dalle percosse subite? È morto di tortura. Le lesioni riportate da Cucchi alla schiena, e negate dai medici con superficialità, non erano di per sé mortali ma sostenere che lui non sia deceduto per quelle lesioni legate al pestaggio è pura ipocrisia. Senza quel pestaggio, non sarebbe morto”. A riportare le affermazioni dell’avvocato Fabio Anselmo sono le agenzie AGI e ANSA: Anselmo, legale di parte civile della famiglia Cucchi, avrebbe pronunciato queste dichiarazioni nel corso del secondo grado del processo davanti alla Corte d'Assise d'Appello, alla quale ha anche chiesto di rinnovare il dibattimento con una nuova perizia perché quella recepita in primo grado presenta, a suo dire, “evidenti contraddizioni logiche, di metodo e di valutazione”.
Ricordiamo che la famiglia Cucchi, avendo accettato l'offerta di risarcimento, ha ritirato la costituzione di parte civile nei confronti dei medici e degli infermieri dell'ospedale Pertini. L’attenzione, quindi, si concentra tutta contro i tre agenti della Polizia Penitenziaria, assolti per insufficienza di prove dall'accusa di lesioni personali. Dopo la richiesta del Procuratore, arrivano le dure parole dell'avvocato: “In questo processo mi ha colpito il silenzio assordante di questi tre imputati che non hanno mai indicato una verità alternativa a quella del pestaggio – riferisce ancora l’AGI, riportando le dichiarazioni di Anselmo – Si sono sempre avvalsi della facoltà di non rispondere, come è loro diritto. “In questo processo – continua Anselmo – non ci sono pentiti. Ci sono solo tre imputati rimasti sempre zitti. Eppure loro c'erano quando Cucchi è stato portato in cella di sicurezza, loro c'erano quando Cucchi chiedeva aiuto e forse rompeva le scatole per non andare in carcere. Loro erano presenti ma non hanno mai detto una parola”.
“Il pestaggio di Cucchi non è come il gioco dello schiaffo del soldato in cui non si riesce a scoprire chi è stato l'autore dell'aggressione e c'è solo chi continua a roteare il dito” – insiste Anselmo. “Lui, Stefano, ormai non può dire chi è stato a pestarlo, dobbiamo dirlo noi. Un responsabile deve essere individuato, perché Cucchi prima di quell'aggressione era in buone condizioni di salute”.
CAPITOLO SAMURA YAYA. Riguardo a Samura Yaya, il gambiano detenuto insieme con Stefano che ha raccontato di aver sentito il pestaggio, Anselmo sostiene che “le modalità del suo racconto sono un atto d'accusa formidabile”, che confermerebbero un pestaggio che comunque “non fu preordinato premeditato, ma d'impeto”.
COMPARE UNA TESTE. Novità nel corso del secondo grado del processo. Un’avvocato, donna, trovandosi per caso davanti all'aula di udienza dove fu convalidato l'arresto di Stefano Cucchi – spiega l’ANSA – avrebbe visto il giovane geometra 31enne in condizioni tali da far pensare a un “pestaggio subito”.