Dimissioni di Fioramonti. Che ha ragione, per lo meno in linea di principio
Il ministro lascia l’incarico e il M5S lo accusa di personalismo e mancati versamenti. Un film già visto: e del tutto fuorviante
C’è la vicenda specifica: il ministro dell’Istruzione ritiene che la manovra economica del governo gli impedisca di garantire anche solo gli obiettivi minimi del suo dicastero e rassegna le dimissioni. In linea, peraltro, con quello che aveva già preannunciato: se le risorse saranno insufficienti lascerò l’incarico.
Fino a qui, e al netto dei presunti retroscena di cui diremo tra poco, non solo non c’è nulla di male, ma addirittura la decisione di Lorenzo Fioramonti potrebbe essere considerata lodevole. In un Paese come il nostro in cui la regola generale è rimanere abbarbicati a qualsiasi tipo di poltrona, o quand’anche di strapuntino, che qualcuno si faccia da parte serve quantomeno a ricordare che la politica non coincide necessariamente con l’amministrazione personale della cosa pubblica. Le idee dovrebbero sempre avere la priorità sugli atti concreti e quando un intento diventi irrealizzabile è giusto – e perciò sarebbe anche doveroso – riconoscerlo senza mezzi termini.
Una logica ineccepibile: siccome il mio impegno è finalizzato a fare determinate cose, qualora non ci siano le condizioni per arrivare quantomeno a uno stadio intermedio ne prendo atto e sgombro il campo. Non solo per non entrare in contraddizione con me stesso, ma per far risaltare che l’esecutivo in carica la vede diversamente e non dà la medesima importanza a quei risultati. Le sue priorità sono altre. E poiché le priorità equivalgono a delle scelte, la solita scusante del “non c’erano i fondi per soddisfare tutti” non cambia la sostanza. Andando, o mirando, a nascondere il fatto che si è preferito dirigere altrove i denari da assegnare.
La posizione di Fioramonti è questa. Come si può verificare nel post che ha pubblicato ieri mattina su Facebook.
Le reazioni contro di lui, invece, vanno pescate qua e là. Ma sono accomunate, specialmente all’interno del M5S (nelle cui file l’ormai ex ministro è stato eletto), da un miscuglio di screditamenti assortiti. Che replicano lo schema abituale e si condensano in una parola. Tradimento. Con l’aggravante dell’interesse materiale, perché alla defezione politica viene aggiunta l’accusa di non aver versato 70mila euro di contributi, nell’ambito della restituzione di parte degli emolumenti parlamentari il cui scopo è alimentare diversi fondi, il cui dettaglio si trova sul sito tirendiconto.it .
Dalla vicenda specifica, così, si passa alla questione generale.
M5S: chi non seleziona a dovere…
Ormai c’è da perdere il conto, per quanto riguarda le frizioni e il malcontento, i dissidi e le rotture in casa dei Cinquestelle. Più che di una casa, quindi, si dovrebbe parlare di un accampamento. O di un porto di mare. In cui si sono radunate persone della più varia provenienza e in cui non si è certo andati per il sottile, accettando di “arruolarle” nelle file del MoVimento.
Le conseguenze erano ovvie, per chi avesse avuto l’intelligenza di mettere a fuoco quelle premesse e di presagirne gli effetti: o prima o dopo le contraddizioni sarebbero emerse. O esplose.
La prima e fondamentale debolezza era, e rimane, la mancanza di una visione socioeconomica nitida, esplicita e inequivocabile. Su di essa si è innestata l’idea delirante degli eletti-portavoce, con il corollario del divieto del doppio mandato. In pratica, si viene candidati senza la necessaria verifica delle effettive caratteristiche, tanto di competenza “tecnica” quanto di affidabilità etico-politica, nel presupposto che una volta in carica ci si atterrà alle indicazioni dei vertici. Oppure, su questioni specifiche, al voto degli iscritti, raccolto per mezzo della Piattaforma Rousseau.
Il presupposto si è rivelato un abbaglio clamoroso, ammettendo che all’origine si trattasse di errore e non di dolo. Non pochi di quelli che avrebbero dovuto comportarsi da soldatini ubbidienti si sono rivelati degli individualisti refrattari a qualsiasi disciplina. Ognuno convinto e stracerto di poter giudicare e agire di testa propria, in base alla propria personale opinione sulla natura del MoVimento e sugli scopi da raggiungere.
A quel punto, riconsiderare il percorso intrapreso sarebbe stato il minimo. Se si vuole capire davvero, infatti, la prima regola, è non fermarsi alla versione più facile. Più rassicurante. Più auto assolutoria.
Purtroppo, invece, è quello che continua a fare il M5S. Inteso, sia chiaro, come l’insieme dei vertici attuali, degli eletti che si allineano alle direttive impartite dall’alto (testacoda inclusi) e dei sostenitori-fan per cui Grillo è la Somma Autorità e perciò, essendo appunto indiscutibile, ha ragione a prescindere. Quanto invece a chi abbia un approccio meno fideistico, pur continuando a militare nel MoVimento o comunque ad appoggiarlo, il discorso è più complesso e lo abbiamo già affrontato dopo le elezioni in Umbria.
Le dimissioni di Fioramonti assumono un risalto particolare perché si tratta di un ministro, ma rientrano in un fenomeno che è troppo ampio e ricorrente per ridurlo a degli inciampi occasionali. E imprevedibili.
Le cause sono invece profonde. Ostinarsi a trattarle come una specie di fatalità non è solo sbagliato. È suicida.