Disoccupati, inattivi o scoraggiati?
di Massimo Persotti
Cambiano le formule ma non la sostanza. Ora, è di moda l'acronimo "Neet", abbreviazione dell'espressione anglosassone "Not in education, employment, or training". In pratica, chi non lavora né studia. Un tempo, il fenomeno aveva un solo nome: disoccupazione. Oggi, la galassia è più articolata, analisti e uffici studi e statistiche ricorrono a formule ormai entrate anche nell'uso comune ma il cui significato spesso sfugge.
Il disoccupato oggi non è chi non ha un posto di lavoro. Non basta. Vuoi chiamarti disoccupato? Allora, devi anche aver cercato attivamente un impiego e mostrarti disponibile a lavorare. Altrimenti, vai a finire nella categoria degeli 'inattivi', cioè le persone che non fanno parte delle forze di lavoro, vale a dire né occupati né disoccupati. Ci sono anche le sottocategorie: inattivi disponibili a lavorare ma che non cercano lavoro e gli inattivi che cercano lavoro ma non disponibili a lavorare. Un girone infernale dove troviamo anche gli 'scoraggiati', le persone che vorrebbero lavorare ma non cercano più lavoro, e i 'sottoccupati', chi ha un lavoro ma a a tempo parziale pur volendo o potendo lavorare di più. Senza dimenticare gli esodati, i non più giovani ma neppure troppo vecchi per meritare la pensione.
I 'Neet' pare siano però il fenomeno più preoccupante. Perchè si riferisce ad un universo giovanile (tra i 19 e i 25 anni) appena uscito dalla formazione ma che non riesce ad entrare nel mercato del lavoro. Nei giorni scorsi, il Ministero del Lavoro ha quantificato in 2milioni i 'Neet' italiani con una incidenza pari all'1,5% del prodotto interno lordo e un costo sulla collettività di 24 miliardi di euro. Insomma, non hanno un lavoro e rappresentano anche un fardello. E' la beffa che si aggiunge al danno. Un 'déjà vù' per i giovani e la loro condizione, basti pensare alle parole-etichetta a cui si è fatto ricorso in questi ultimi anni: bamboccioni, sfigati, choosy. Per dirla come vuole la tradizione popolare, 'cornuti e mazziati'.