Esiste la mafia a Roma?
La risposta la dà Antonio Turri, presidente Associazione Cittadini contro le Mafie, ad ECG Regione Lazio
Esiste la mafia a Roma? “La mafia a Roma esiste da almeno 60 anni. 60 anni fatti di negazione e sottovalutazione”.
A parlare ai microfoni di ECG Regione Lazio, sulle frequenze di Radio Cusano Campus, nella trasmissione condotta da Andrea Di Ciancio e Roberto Arduini è Antonio Turri, presidente Associazione Nazionale Cittadini contro le Mafie e la Corruzione. Si tratta di un’associazione di volontariato attiva dal 10 dicembre 2006 sul fronte della lotta alle mafie e che conta tra i suoi aderenti, tra gli altri, anche giornalisti, appartenenti alle Forze di Polizia, giuristi, ma soprattutto Cittadini, sensibili ai temi dello sviluppo di poltitiche che favoriscano il rispetto delle leggi, della legalità e della giustizia sociale.
Turri sostiene che la mafia, in Italia e a Roma, non è “solo criminalità”. Un fenomeno, quest’ultimo presente “in tutti i Paesi del mondo”: la mafia, da noi, è “un’organizzazione economica, politica e sociale. Quando alla mafia – incalza Tutti – si sommano pezzi della politica e dell’imprenditoria, diventa un fenomeno sociale, un fenomeno culturale” e non più solo criminale. Ed è per questo che le mafie “non potevano non essere interessate a Roma. Magari – continua – hanno gambe e braccia in Sicilia o in Calabria, ma la testa, la direzione strategica” di questo fenomeno culturale “è sempre stata a Roma”.
Come si è sviluppato questo fenomeno? Secondo Turri, tramite la “contaminazione mafiosa”. E cioè: “Roma, nel corso degli anni, ha subìto il fascino dei soldi e del potere delle mafie” – non solo a Roma, precisa poi Turri: “da qui si è spostata verso l’alto, quella che noi chiamiamo ‘la quinta mafia’ ”. Si sta generando, insomma, “un modello mafioso da contaminazione che prende sì spunto dalle organizzazioni criminali presenti nel Sud del Paese, che però rielabora e coinvolge non soltano le mafie autoctone, come camorra, ‘ndrangheta e mafia, ma che tende ad inglobare anche pezzi delle mafie straniere”.
Il fatto che a Roma, al di là del Tevere, ci sia un paradiso fiscale, quanto attrae le organizzazioni mafiose? Alla domanda dei due conduttori di ECG Regione Lazio, Turri risponde che “oltretevere per anni c’è stato un sistema bancario motivo di riciclaggio per le mafie. Un riciclaggio anche comodo, che ha consentito di non pagare nessun prezzo alla giustizia” – spiega Turri, riferendosi alle – “mancate convenzioni dello IOR nell’ambito dei trattati internazionali contro il riciclaggio”, o anche “a tutta una serie di vicende e protezioni che anche i pezzi” ai vertici “della Chiesa hanno offerto ai mafiosi”. Perché quando “la mafia diventa Stato”, inevitabilmente “tutto il sistema è inglobato e coinvolto”.
Ma come avviene l’incontro tra le mafie autoctone e quelle straniere? Di esempi, sostiene Turri, ce ne sono moltissimi. A partire dalla prostituzione: “è visibile ad occhio nudo che sia esercitata, spesso, da persone provenienti dai Paesi dell’Est o dai Paesi dell’Africa. Dietro le donne costrette a prostituirsi “ci sono i loro connazionali che organizzano questo turpe traffico degli esseri umani”. Ma c’è anche “il commercio delle droghe”, o quello delle “merci taroccate”, per citare altri due esempi. In tutti questi casi, “mafie autoctone e allogene entrano per forza in contatto: si crea un connubio, un’interazione. Che poi comporta una modifica genetica del sistema mafioso inteso come sistema culturale”. E la conseguenza è che si generano “omertà e paure: a Roma si ha paura di clan allogeni”. E in tutto questo si registra un “ritardo delle istituzioni nel comprendere il fenomeno: le mafie sono sempre un passo avanti”.
Gli organi istituzionali, come le Commissioni, sono strumenti efficaci per la risoluzione del problema? È un “sistema che non funziona” – secondo Turri, che spiega come si tratti di una rete che gli stessi Falcone e Borsellino osteggiavano. Bisognerebbe, piuttosto, “unificare a livello centrale, anche con delle strutture a carattere regionale, come le Direzioni Distrettuali Antimafia o la DIA. La politica, invece, va nella direzione totalmente opposta – continua Turri – Milano ha la sua Commissione coi suoi nomi antimafia famosi da spettacolo, Napoli ha la sua e così via, fino alla Bindi che ha i suoi esperti in Parlamento. Si continua a fare poco, la politica continua a fare poco”.
Quali, invece, i compiti della politica? La politica, secondo Turri, “deve risolvere i problemi economici e sociali sul territorio. Fino a quando ci sarà disperazione sociale, fino a quando esisteranno fenomeni come la disoccupazione o la povertà, e non solo al Sud, ma anche, per fare un esempio, nelle periferie romane o nella provincia di Roma” è inutile che la politica continui a “studiare o fare proposte su come si combatte tecnicamente la mafia o un fenomeno criminale”. La politica ha altri compiti: “Abbiamo esperti di mafia che dovrebbero stare tra gli ultimi, tra gli emarginati, invece fanno le audizioni in Commissione con pseudo esperti, e non vengono mai sentiti, ad esempio, i dirigenti dei Commissariati di Scampia o comunque chi la mafia la combatte ogni giorno”.
Basti pensare alla formazione di certe Commissioni: “Se vince il centrodestra, in Commissione ci va il non eletto, e lo stesso discorso vale per il centrosinistra. Questo – insiste Turri – la dice lunga su come si intenda combattere un fenomeno gravissimo”.
E anche questa è una forma di “mafiosità” – sostiene il presidente dell’Associazione. “Non si trovano macchine per scortare testimoni giustizia che entrano in aule di tribunale per fare denunce nei confronti di capoclan, mentre abbiamo macchine pronte a scorrazzare per difendere il parolaio di turno o l’esperto di turno solo perché hanno visibilità mediatica”.
Quindi la lotta alla mafia è ancora lontana dall’ottenere buoni risultati? “Il nostro è un Paese che ha problemi. Se non li avesse, le mafie non fatturerebbero ogni anno sempre di più. Abbiamo un apparato antimafia sociale, che è l’antimafia politica, che costa tantissimo, e nonostante questo le mafie e la corruzione continuano a fatturare tantissimo. Secondo uno studio della CNA, quest’anno le mafie hanno fatturato 10 miliardi in più, da 160 a 170 miliardi di euro. Questo – continua Turri – è emblematico del fallimento della scelta politica in tema di antimafia”.
Da dove passa la lotta alle mafie? Dalla “ricostruzione di un ordine sociale” – sentenzia Turri. “Se pensiamo che ci sono soldi per far partire simbolicamente ‘navi della legalità’, ma non ci sono i soldi, ad esempio, per mettere in piedi una seria lotta alla mafia da parte degli organi competenti, come a Palermo”, è evidente che questo sistema di lotta abbia fallito.
Ognuno deve riappropriarsi dei propri compiti: anche i cittadini hanno un ruolo. “Ai cittadini, ad esempio, spetta il compito di denunciare e chiedere chiarezza. Ma a loro spetta anche il controllo democratico sull’operato della classe dirigente, anche su questo fronte. Ci vuole il coraggio di dire le cose come stanno: come che per anni abbiamo avuto Procure della Repubblica che non hanno fatto il loro dovere, oppure organi e uffici di Polizia che sono stati dalla parte sbagliata. Il processo Stato-Mafia sta dimostrando proprio questo. Bisogna cambiare strada”.