Esploratori urbani: chi sono davvero gli urbex che attraversano le rovine di Roma
Tra gli urbex c’era anche Carlotta Celleno, la giovane che ha perso la vita esplorando il vecchio Molino Agostinelli in via del Pescaccio

Street art, pexels-timmossholder
Non è un gioco per ragazzi, né una moda passeggera. L’urban exploration, più comunemente conosciuta come “urbex”, è una pratica che negli ultimi anni ha attirato un numero crescente di appassionati. A Roma, città stratificata dove il moderno e l’antico convivono a volte con abbandoni silenziosi, gli urbex hanno trovato un terreno particolarmente fertile. Giovani e meno giovani che scelgono di esplorare luoghi dimenticati, ville diroccate, ospedali dismessi, fabbriche in rovina. Non per vandalizzare, non per rubare, ma per osservare e raccontare.
Un viaggio tra le ombre: l’esplorazione come arte
Tra loro c’era anche Carlotta Celleno, la giovane ventenne che ha perso la vita esplorando il vecchio Molino Agostinelli in via del Pescaccio. Una tragedia che ha acceso un faro su questo mondo semisommerso, fatto di avventure, scoperte e, inevitabilmente, rischi.
Chi pratica seriamente l’urbex segue regole tanto semplici quanto inderogabili: non danneggiare, non portare via nulla, lasciare tutto com’è stato trovato. È una questione di rispetto verso quei luoghi, di consapevolezza che ogni edificio abbandonato racconta una storia che merita di essere osservata, non alterata.
Gli urbex non sono vandali né saccheggiatori. Sono osservatori, narratori di rovine. E Roma, con la sua immensa eredità di spazi dimenticati, offre scenari che sembrano usciti da romanzi post-apocalittici. L’ex ospedale Forlanini, la Città dello Sport incompiuta a Tor Vergata, gli stabilimenti dismessi lungo la via Tiburtina: ogni angolo custodisce memorie di un passato sospeso, incastonato tra l’ambizione e il fallimento. <h2>Dove il tempo si è fermato: i luoghi simbolo dell’Urbex a Roma</h2>
L’ex fabbrica della penicillina a San Basilio è uno degli emblemi di questa geografia dell’abbandono. Un colosso industriale oggi ridotto a uno scheletro fatiscente, teatro di incidenti come quello che, solo un anno fa, vide un diciottenne cadere nel tentativo di scattare un selfie estremo. A Tor Cervara, invece, le vecchie aree industriali raccontano un’altra epoca, quella dei rave illegali degli anni ’90, quando la musica techno rimbalzava sui muri sbrecciati di edifici ormai svuotati.
Non lontano, il parco della Madonnetta ospita un centro sportivo abbandonato, trasformato in una scenografia naturale per sessioni fotografiche surreali. Camminare in questi luoghi significa attraversare i resti concreti dei sogni spezzati, muovendosi tra frammenti di storie mai raccontate. <h2>Esplorazione urbana: tra romanticismo e rischio reale</h2>
Chi pensa all’urbex come a un passatempo romantico trascura la durezza della pratica. Le insidie sono ovunque: tetti che minacciano di crollare, pavimenti sbriciolati, scale pericolanti. Spesso l’amianto e altre sostanze tossiche contaminano l’aria stagnante di questi ambienti dimenticati. E poi c’è il problema, non secondario, della violazione di proprietà privata.
I più esperti si muovono con cautela: sopralluoghi preliminari, piccole squadre ben attrezzate, uscite pianificate nei dettagli. Qualcuno documenta le proprie esplorazioni con videocamere GoPro, pubblicando documentari su piattaforme come YouTube, dove l’urbex è diventato un genere narrativo a sé stante.
Ma non tutti rispettano questa disciplina. Accanto agli urbex consapevoli, ci sono avventurieri improvvisati che inseguono solo la foto d’effetto o il video virale, spesso ignorando i pericoli e contribuendo, involontariamente, alla stigmatizzazione della comunità.