Estate senza vacanze e la sindrome del poveraccio
A non andare in vacanza a ferragosto, non ne parliamo a passare tutta l’estate senza vacanza, molti si sentono in imbarazzo
La sindrome del poveraccio, combattuti fra la scelta di carattere e il giudizio del vicino. A ferragosto non sono andato da nessuna parte. Anzi ad agosto, anzi finora (siamo a settembre). Ma a non andare in vacanza a ferragosto (non ne parliamo a non andare in vacanza tutta l’estate) molti si sentono in imbarazzo.
Credo che il pensiero ricorrente, non detto neanche a se stessi, sia: penseranno di me/noi che sono/siamo in ristrettezze. Ci compatiranno o, i malvagi tra loro, ghigneranno. Alla fine, passerò da poveraccio.
Estate senza vacanze? Passo da poveraccio
E’ un po’ la stessa sindrome che tiene i più alla larga dalle sale cinematografiche, dai teatri, dai luoghi di spettacolo in generale, se (quel giorno) stanno da soli. Passo da poveraccio. Eppure vedersi un film da soli ha i suoi benefìci. Frattanto hai potuto scegliere senza condizionamenti, mediazioni; poi – se il film è complesso – alla riaccensione delle luci ti sei risparmiato il commento obbligatorio a caldo, quando invece avevi bisogno di dormirci su.
Ma alla fine l’hai fatto. Non per scelta; circostanze. Ti siedi, le luci sono ancora accese maledizione; c’è parecchia gente in sala. Vuoi darti un contegno, tiri fuori il telefonino (che altro se no?). Fai un po’ di scroll a caso, aria seria, concentrata. Finalmente comincia.
Ma prima o poi si riaccendono. E’ un brutto momento se sei solo. Per andar via devi voltarti, ed è il momento che qualcuno ti riconosce. Magari proprio qualcuno con cui volevi apparire richiesto, circondato di devoti pretoriani. E invece sei solo. “Ma quello è..? Sta solo? Non guardarlo, magari si imbarazza”. Lo spettro del poveraccio.
Al cinema e al ristorante momenti d’imbarazzo
E al ristorante? Peggio mi sento. Se sarai riconosciuto da qualcuno, leggerai nei suoi occhi, al più, solidarietà. Se guardi nel piatto o davanti a te appari cupo. Se ti guardi intorno, indiscreto; se apri una rivista o un libro, maleducato. Comunque, passi da poveraccio.
Di giorno no, se ti porti una cartella e ti vesti come se uscissi da una riunione, sei a posto; il break di pranzo. Ma a cena… C’è solo una cosa peggiore: essere in muta compagnia. Solo a cena, immagine che sorprende negativamente i conoscenti (“ma non aveva famiglia?” se sposato; “ma è senza amici?”), vagamente imbarazzante per gli intimi (“lo dicevo, qualcosa a casa non va”. O peggio “aspetta qualcuna/o, fa’ finta di non vederlo/a”); comunque grigia agli occhi di tutti gli altri.
Tuttavia io credo che ci sia anche un potente subliminale substrato di desiderio alla base della coazione a omologarsi, a fare come fanno gli altri. Che non arriva neanche a concretizzarsi in pensiero, e che ha a che fare con un’inconfessata debolezza, che non ammetterai mai. A fare la cosa canonica, nel momento canonico, ti senti protetto dal mainstream, sei nel ventre caldo della normalità.
Così, prendendo a emblema il caso delle vacanze, qualcosa ti imponi di farla, e hai la risposta pronta alla domanda Che Fai Quest’Estate. Poi magari il progetto, nell’enunciarlo, appare improvvisamente inadeguato (“andiamo a trovare i cugini di mia moglie”; “avevamo prenotato da tempo un villaggio”; “andiamo con la famiglia di un compagno di classe di nostro figlio”). E allora ne accompagni la notifica con – che so – un’alzata di spalle, di sopracciglia, un musetto relativista, biascichi una frasetta quasi di scusa, che equivale a “così va il mondo”.
E davanti al TG della notte, in camera o nella hall dell’albergo/pensione, al richiamo dei magici mantra esercito dei vacanzieri, esodo, controesodo (disgustoso e scorretto neologismo mediatico), hai un impercettibile guizzo di orgoglio: “… E anche voi potrete dire C’ero anch’io!”*.
*Così declamavano stentoreamente i titoli di testa di un programma americano che nei ’50-’60 sceneggiava per il volgo i Grandi Momenti della Storia).
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