Folle amore, Teresa Melorio e Claudio Scarapiglia
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
Folle amore è una raccolta di composizioni, riflessioni e poesie a cura di Teresa Melorio e Claudio Serapiglia, scritte tra il 1980 e il 1990 dagli “ospiti” dell’ex Ospedale Psichiatrico Paolo Pini di Milano, lo stesso Ospedale dove dal ’65 al ‘72 venne internata la poetessa Alda Merini. Questi liberi pensieri sono stati ritrovati venti anni fa, al momento della chiusura dell’ospedale, sparsi qua e là come coriandoli, come foglie cadute, nei cassetti, negli armadi, nelle tasche delle vestaglie, in mezzo a cianfrusaglie, mozziconi e vecchi pacchetti di sigarette accumulati per riempire vuoti incolmabili.
Gli autori degli scritti, i cosiddetti “folli”, sono stati per troppi anni dimenticati come pazienti e come persone, dopo la legge 180 non hanno avuto la possibilità di riabilitarsi in una società che non aveva strumenti per accoglierli.
Personalità troppo sensibili e profonde per adattarsi agli schemi sociali comuni, considerati come individui scomodi e improduttivi o addirittura pericolosi, incapaci di esprimersi e di svolgere attività significative, essi per primi erano in fondo desiderosi di non esserci più per gli altri, perpetuando all’infinito una storia che da sempre era stata l’unica per loro: indesiderati, non amati, non compresi. Mai per loro la possibilità di esserci nella mente e nel cuore di un altro, di percepirsi come qualcosa di definito, di rispecchiarsi nell’amore, quello vero, quello “sano”, di qualcuno. L’azione disgregante di questa assenza totale di esistenza si alimentava nei gesti routinari della monotona vita manicomiale, isolata dalle normali coordinate spazio-tempo, nella solitudine, nell’abbandono di speranze e di progetti.
Verrebbe da chiedere agli operatori “del mestiere”: a cosa potevano mai servire le diagnosi, le terapie farmacologiche, la socioterapia rivolte ad esseri “inesistenti”?
Il materiale qui raccolto sorprende per la bellezza, la profondità, la verità, rese in questi scritti con una semplicità quasi disarmante e al tempo stesso meditativa. Difficilmente si tratta di qualcosa di banale o scontato: spesso vi è un’ironia così tagliente ed immediata che trascende la norma piatta delle comuni emozioni, dando l’impressione di una spiritualità ricca e profonda, di intuizioni straordinarie perché pescano nelle piaghe più profonde dell’anima: in fondo essi sono professionisti del vivere nel dolore e nelle passioni umane portate fino all’insostenibile!
La sorpresa sta nell’evidente differenza tra loro e i cosiddetti “sani”: i sentimenti, in specie l’amore, quello vissuto dai sofferenti psichici per i propri cari o solo vissuto di fantasia, sono espressi con le stesse parole e gesti, ma loro amano, soffrono, si disperano, gioiscono con un’intensità ed una libertà che i cosiddetti “normali” troppe volte non si concedono.
Tutto in questo libro è un atto di amore “folle” perché è quello per il diverso, il rimosso, l’emarginato, l’escluso. E’ l’amore per una vita che nonostante tutto è un tesoro prezioso e va vissuta, ed è folle perché nasce dalla sofferenza e nessun “normale” ama soffrire.
Ma la mancanza di sofferenza porta poi alla “normalità”?
Alberto scrive che il Pini è il “lager dei vivi”, dove abitano principi, diavoli, reginette, i “principali vivi della terra”. Dice che ci sono altri lager di persone sacre e invita a spargere per la terra, seminandole, vite così sacre, perché è un peccato vederle chiuse in buchi così piccoli… anche se non sono capaci di timbrare regolarmente il cartellino per entrare nella società e non sono produttive secondo gli schemi convenzionali.
Mauro scrive che piove sulle lacrime asciutte sue e dei suoi compagni e che le brutte copie dell’amore, la felicità repressa, la lontananza troppo prolungata, l’inferno e il vuoto non gli fanno paura.
C’è chi, come Dubuffet, ha definito la follia come l’unica possibile fonte dell’arte, giacché risponde alla necessità dell’atto creativo di svilupparsi nel territorio dell’impensabile e dell’incodificabile.