“Generazione di precari” al Teatro Golden di Roma
Quando la soluzione non si trova è lo sconforto e la ribellione ad imporre l’azione e lui, di fronte alle missoni impossibili
Dal 22 dicembre 2015 al 17 gennaio 2016 al teatro Golden di Roma va in scena lo spettacolo ‘Generazione di Precari’, commedia brillante scritta da Toni Fornari che ne cura altresì la regia. Le musiche sono di Enrico Blatti. E’ la versione rielaborata di ‘Precari’, mantiene la trama prima maniera e presenta i medesimi protagonisti. Alla stesura originaria sono stati aggiunti inserti musicali e alcuni spunti che rendono più godibile e fluido l’intreccio. Si narrano le vicissitudini di quattro giovani d’oggi costretti dal caso ad una coabitazione per necessità, alle prese con gli endemici problemi di lavoro che accomunano le generazioni recenti intente a decifrare una pletora di contratti nell’era imperante del Jobs Act. Il percorso quotidiano non verrà per questo facilitato perché il canone diventa un cappio insopportabile ancorché condiviso e non sempre l’unione fa la forza di arrivare senza assilli a fine mese. Se poi fra i quattro c’è chi fa la cresta sull’affitto e condivide entrambe le donzelle del gruppo a insaputa delle interessate, le prospettive si complicano e la convivenza non può essere immune da rischi. Duccio prova a fare il musicista da quando all’età di sei anni bisticciava in disaccordo con Jingle bells; Laura è primatista di rincorsa a titoli e sospira ripetizioni; Lina si ingegna nell’arte della divinazione ma non ha le carte in regola; Edoardo è il rivoluzionario de noantri, il vendicatore dei soprusi patiti da ognuno e la sua ‘imprudente’ esaltazione finirà per trascinare allo sprofondo l’intera cordata. La sorte avversa colpirà anche un’inerme extracomunitaria di nome Svetlana, in-colpevole di ricettazione e in attesa di un permesso di soggiorno che mai vedrà.
Quando la soluzione non si trova è lo sconforto e la ribellione ad imporre l’azione e lui, di fronte alle missoni impossibili, da predicatore senza mezze misure che razzola allo stesso modo, non si tira indietro e va diritto al cuore. Peccato che Edoardo abbia poco in comune con El Che e poco importa se i compagni di sventura non siano campesinos. Il comizio del ministro del Lavoro è l’occasione poco propizia ma molto invitante per mettere in atto un piano rischioso al punto che farebbe desistere un rapitore seriale ma non l’idealista paladino di diritti sacrosanti. Quel gesto di sconsiderata follia metropolitana, a cose fatte, non sarà affatto inteso dal malcapitato obiettivo come una goliardata ma come un attacco alle istituzioni oltreché alla persona e provocherà conseguenze facilmente prevedibili. La ricostruzione fornita pubblicamente dall’esponente di governo appagherà ragion di stato e trasversali vendette personali ma non l’amor di verità, sacrificata miseramente a fini di potere. Marco Morandi è Edoardo, stravagante pubblicitario di spot tra mitologia e megalomania con intrusioni bibliche e carismatiche ma che nessun impresario normodotato avvalora. Marco è ormai artista completo, ha grinta e simpatia. Molto efficace nella parte del leader contestatore e soprattutto del sequestratore improvvisato e sprovveduto. Carlotta Proietti è Lina, cartomante cafona e sanguigna che fatica a catturare creduloni disperati e devoti nonostante l’abnorme richiesta di paranormale in tempo di crisi recluti in forze aspiranti adepti sull’orlo del non ritorno. Riuscirà nell’intento di svilire una categoria in affanno di suo.
Carlotta è brava e dimostra una versatilità che fa ben sperare e inorgoglisce cotanto maestro. Lady Lina ha voce straordinaria e presenza scenica che incute rispetto. Claudia Campagnola è Laura, due lauree e altrettante specializzazioni incamerate da una mente prodigiosa quanto inconcludente e dall’impanicamento facile, tanto incompresa e interiormente ipereccitata e ripiegata su se stessa da risultare autistica agli occhi degli altri. Folgorata da Calamandrei, è all’inseguimento del tris sulle tracce di Marco Tullio Cicerone e ‘De consulatu suo’. Claudia ha personalità da vendere, grande interprete caricaturale, dà vita al suo personaggio, meticoloso e cerebrale, con disinvoltura, infondendogli tenerezza gravata da precisione manageriale a lei congeniale. Balla perfino, insieme a Duccio, allias Matteo Vacca che interpreta un musicista a corto di talento oltre che della terza nota utile a confezionare il suo evergreen. Enigmatico e senza scrupoli fino in fondo, per opportunismo e per discendenza. Fallito di lusso nonché fedifrago. In attesa dell’ispirazione tardiva, svuota la cantina del padre che perde pezzi pregiati come l’amarone della Valpollicella classico conte Siniscalchi Odescalchi(???) Gran Riserva, 690 euro.
Il prezzo della bottiglia vale la misera ‘pensione di mia madre’, sentenzia l’arguto compagno Edoardo. Anche Matteo è sempre a suo agio e carica di grande ironia l’ambiguo personaggio rendendolo esilarante e meno greve. Infine Maurizio Di Carmine è lo scaltro ministro degli Interni alle prese con un sequestro di persona ridicolo e surreale. Riuscirà a veicolare in suo favore gli eventi con ribaltone spettacolare ancorché annunciato. E’ il politico che rappresenta al meglio la classe di appartenenza e non smentisce nei toni e nell’ordito la protervia della casta onnivora che privilegia la vendetta servita fredda perché fa più danno. L’onorevole glaciale mostra una ferocia inaudita oltre che proverbiale. Dopo aver menato la danza ed elargito promesse di lavoro e salvacondotti a gogo, pur di portare a casa la pelle, non praticherà sconti di fine sequestro agli ‘aguzzini’ letteralmente smascherati e dati in pasto agli osannanti media. Finiranno dietro le sbarre, destinati tutti a servizi socialmente utili tranne uno, fosco rampollo di sottosegretario. Buon ‘remake’ di ‘Precari’, migliorato nella sceneggiatura essenziale. Ritmo sostenuto a cui le gli intermezzi musicali aggiungono vibrazioni armoniche. I brani di Enrio Blatti sono orecchiabili e ben eseguiti. La bravura indiscussa degli interpreti è coniugata ad una intesa consolidata che favorisce e perfeziona uno spettacolo frizzante che ha tratti di farsa in musica e parodia da operetta.
Ebbi a scrivere di ‘Precari’ poco più di un anno fa e fra l’altro: “Spettacolo che parte bene e quando ti aspetti il turbo, la vicenda rallenta la corsa. Trama con esito prevedibile, finale scontato e senza sussulti, il cui vero collante è il talento di quattro giovani attori intraprendenti le cui battute ed espressioni gergali riescono a tenere alta la curva d’attenzione di uno spettatore incuriosito e benevolo fino alla fine. Su tutti la consumata esperienza di un attore poco conosciuto al pubblico ma di spessore assoluto, Maurizio Di Carmine, formatosi sui classici e anche per questo battitore libero, senza timore di affrontare alcuna parte, grande interprete che impersona un politico smaliziato e senza scrupoli. Prende per mano con maestria ed autoironia i giovani precari e il testo insieme e il gradimento se ne avvale. La seconda parte è una incompiuta, sembra scritta di fretta da una mano approssimativa, l’ideatore smarrisce la creatività che ha soltanto fatto intendere. Il sequestro di un oratore in una piazza gremita è di per sé improbabile ma quando a metterlo in esecuzione è un giovane disarmato esile, sprovveduto e sovrastato dal sequestrato, è chiaro che la finzione scenica o il paradosso non bastano a sostenere il tema che viene banalizzato. Manca una trattativa, non c’è traccia di riscatto e stride la arrendevolezza dei precari che si offrono alle lusinghe dell’astuto ministro senza colpo ferire; serviva un po’ di coraggio, mentre si insinua lo stereotipo del ’tanto non cambia nulla’; di più, quasi un j’accuse verso una generazione che contesta ma si cala le brache nel momento che conta… La scena conclusiva dei quattro sventurati rinchiusi in cella è una nota di candore, rasserena e riconcilia il pubblico con lo spirito brillante e giocoso della commedia comunque gradevole.”
Confermando il giudizio ampiamente espresso sui singoli e approvando senza riserve il buon lavoro di insieme, la novità è che interpretazioni apparentemente contrastanti possono risultare contigue nelle conclusioni. Ho avvertito in ‘Precari’ la disillusione più della speranza e nei giovani precari le vittime sacrificali mentre avrei preferito riconoscerli antagonisti. Non ho intravisto la speranza che pure la pièce pareva adombrare. E’ la magia del teatro, fatto di emozioni e sensazioni partecipate che si confrontano e non confliggono. E’ l’inarrivabile leggerezza del teatro che non suggerisce proposte né detta soluzioni ma pone domande, racconta e trasfigura a piacimento, con ironia, a volte con amarezza, con garbo o con rabbia. Il teatro è satira, è specchio scomodo e sferzante, è contrasto e a volte resistenza. La disillusione è un sentimento ricorrente, come la speranza che anche quando viene meno non si estingue mai, finché esiste vita. Il teatro è libera espressione estetica e segue i destini del suo artefice. Ribadisco il concetto perché se è vero che anche il finale di ‘Generazione di precari’ proposto da Toni è quasi prevedibile, fa comunque riflettere e insinua interrogativi. Il messaggio è forte e chiaro. Da buon osservatore, pone con forza il dramma di una classe giovanile che invecchia senza tutele; individua il colpevole, un ceto politico litigioso che compatta i privilegi e trascura i bisogni di un paese incredulo. Svolge il tema con la solita ironia mista a sarcasmo, ha il merito di scuotere le coscienze e lo fa con l’arma del paradosso riempiendo di autorevole significato e sottile vivacità il suo pensiero. Una diversa conclusione poteva essere ovviamente proposta e avrebbe avuto un altro impatto, sarebbe stata sognante ma meno attuale e il lieto fine avrebbe sublimato l’impresa.
Credo che Toni, non ritenendola altrettanto efficace e ancor meno provocatoria, abbia appunto escluso l’opzione da coup de théatre dai naturali sviluppi di un colpo di mano fallito. Di contro, l’impotenza di quei giovani perbene, le attese frustrate, le promesse non mantenute, le menzogne abituali come le ruberie rappresentano un pugno nello stomaco che non trovano soddisfazione e urlano sdegno. Paradossalmente, appunto, alimentano la speranza del rinnovamento e lo pretendono. C’è la legge uguale per tutti e quella per tutti gli altri, così in terra come in cella. E’ la chiave di lettura che sottende il finale di ‘Generazione di precari’ perché il dover essere non appartiene per definizione all’essere del politico di queste latitudini e perché, e conveniamo con il buon Toni, si può credere ai miracoli come evocato da ‘Finché giudice non ci separi’ ma non alle favole.
Sebastiano Biancheri