Giustizia a orologeria, se alcuni s’indignano solo quando tocca a loro…
La vigilia delle Comunali accesa dai casi Morisi e Lucano, oltre che dalle inchieste su Tiziano Renzi e FdI. E il Pd ora insorge contro la magistratura, neanche fosse lesa maestà
Alla vigilia delle Comunali di domenica e lunedì 4 ottobre, la vexata quaestio della giustizia a orologeria è tornata a esplodere. Merito (si fa per dire) di quattro casi tra loro diversissimi, che però hanno in comune una tempistica piuttosto “opportuna”. Con la novità di un “bersaglio” inedito che, abituato a stare dalla parte opposta della barricata, pare non aver minimamente gradito l’inversione di rotta.
Torna la giustizia a orologeria?
Puntuale come una cambiale, a pochi giorni dalle Amministrative è nuovamente divampata la polemica sulla giustizia a orologeria. Ad accendere la miccia è stato l’ormai notissimo episodio riguardante Luca Morisi, l’ex social media manager della Lega indagato per detenzione e cessione di sostanza stupefacente. Reato consumato durante un festino con due giovani escort rumeni e un cinquantenne italiano. Fatti però risalenti a metà agosto ma che, curiosamente, sono finiti su tutti i giornali all’inizio dell’ultima settimana di campagna elettorale.
Non era, peraltro, un caso (politico) isolato. Nelle stesse ore, infatti, veniva rinviato a giudizio Tiziano Renzi, padre dell’ex Premier Matteo, leader di Italia Viva. L’accusa nei suoi confronti è traffico di influenze illecite in relazione all’inchiesta Consip, la società del Ministero dell’Economia che gestisce gli acquisti della P.A. Per gli inquirenti, Renzi senior, assieme all’imprenditore Carlo Russo, avrebbe mediato con l’ex A.D. dell’ente Luigi Marroni perché questi favorisse l’altro imprenditore Alfredo Romeo.
Poi è arrivata la condanna a 13 anni e 2 mesi (in primo grado) per Domenico “Mimmo” Lucano, già sindaco di Riace e campione dei radical chic. Un verdetto su cui, per la verità, la confusione regna sovrana. È vero, infatti, che all’ex primo cittadino, paladino buonista in quanto propugnatore di un’accoglienza indiscriminata, era contestato anche il favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Però da quest’accusa (come da altre, per esempio la concussione) è stato assolto. Mentre è stato condannato, per farla breve, per peculato plurimo in associazione per delinquere e per truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche.
Dulcis in fundo, ecco l’appendice rappresentata dall’inchiesta per finanziamento illecito e riciclaggio relativa alla campagna elettorale milanese di FdI. Inchiesta aperta – guarda caso – a poche ore dal silenzio elettorale.
L’ipocrita garantismo a senso unico alternato
Fin qui la cronaca, poi ci sono i risvolti, che riguardano soprattutto quel partito che per vent’anni ha brandito la giustizia come una clava contro gli avversari politici. E il cui segretario, Enrico “stai sereno” Letta, ha descritto la vicenda Lucano come «un messaggio terribile», che «farà crescere la sfiducia nei confronti della magistratura».
In effetti il Nipote-di può tranquillamente tener fede al suo soprannome. La stima verso il terzo potere dello Stato, specialmente dopo l’affaire Palamara, è già talmente bassa che ben difficilmente potrà essere ancora intaccata. Senza contare che, fino a prova contraria, i gradi di giudizio sono tre, e Appello e Cassazione potrebbero anche ribaltare la deliberazione del Tribunale di Locri.
Piuttosto è interessante notare l’atteggiamento da lesa maestà del Pd, solitamente fautore del luogo comune secondo cui “le sentenze non si commentano, si rispettano”. Perlomeno – pare – finché non lambiscono proprio via del Nazareno, ritrasformando improvvisamente i manutengoli del peggior giustizialismo in alfieri del garantismo. Che però, proprio come l’ipocrisia di-Letta, è sempre a senso unico alternato.