Governo, l’insuccesso che dà alla testa al Pd (e al Premier Conte)
I dem ringalluzziti farneticano su Salvini e nuovi equilibri interni all’esecutivo: ma la realtà è che hanno solo ripreso una Regione rossa da cinquant’anni
Diceva sardonicamente Giulio Andreotti che «il potere logora chi non ce l’ha». Erano altri tempi, i giorni della Prima Repubblica – e chissà se il Divo Giulio avrebbe mai immaginato che proprio gli eredi di quel Pci che aveva sempre combattuto erano destinati a correggerlo? Dimostrando che anche una vittoria – sia pure di Pirro – è perfettamente in grado di dare alla testa.
Si vedano le roboanti dichiarazioni che da giorni il Pd strombazza per celebrare lo scampato pericolo in Emilia-Romagna: fanfare che inneggiano al riscatto del centro-sinistra, alla disfatta del leader del Carroccio Matteo Salvini, alla necessità di «modificare l’asse politico del Governo», come rivendicato dal vicesegretario Andrea Orlando. A conferma che i dem vivono in un mondo onirico che si scontra costantemente con la realtà.
«Sembra che il Pd abbia vinto la guerra mondiale» ha ironizzato per esempio Vittorio Feltri, «mentre si è solo ripreso una regione da sempre rossa». Anzi, semmai l’unica novità rispetto al copione degli ultimi cinquant’anni è il fatto che, per la prima volta, il partito di via del Nazareno si è dovuto giocare la partita, rischiando anche di capitolare. E, oltretutto, non ha nemmeno capito chi deve ringraziare.
Se infatti il segretario Nicola Zingaretti si è prodigato in lodi ittiche, il riconfermato Governatore emiliano Stefano Bonaccini ha sottolineato l’importanza del voto disgiunto: fattori che hanno certamente avuto un peso (soprattutto il secondo), ma non così eccessivo, se si pensa che il risultato del candidato pentastellato Simone Benini è stato inferiore soltanto di un punto percentuale (e spicci) rispetto a quello complessivo del MoVimento. La realtà è che Bonaccini ha vinto non tanto perché gli elettori grillini hanno contemporaneamente messo la croce sul suo nome e sul simbolo del M5S, ma perché due su tre si sono espressi direttamente per lui.
Risibile è poi l’analisi che vedrebbe il Capitano come il grande sconfitto delle Regionali. Ha sicuramente fatto degli errori, come l’eccessiva personalizzazione delle elezioni, ma ha portato la Lega a meno di tre punti percentuali dal Partito Democratico in quella che da sempre è una roccaforte (post)comunista. E in Calabria ha dato un forte contributo al trionfo di Jole Santelli.
«Veniamo da nove sconfitte consecutive, delle batoste. Quindi nessuno si illuda di aver risolto i problemi perché abbiamo vinto l’Emilia-Romagna» ha commentato Bonaccini con onestà e lucidità. E infatti la situazione delle Regionali nell’ultimo biennio recita ora 8-1: averne, di queste sconfitte!
In realtà, la narrazione della débâcle di via Bellerio appartiene più che altro al bi-Premier Giuseppe Conte: il quale ha sempre più difficoltà a tenere a freno il rancore e ricordarsi che «deve lavorare per il bene degli Italiani», come gli ha rammentato l’ex Ministro dell’Interno, e non per contrastare le destre come affermato dallo stesso Capo del Governo (sia chiaro: sarebbe altrettanto grave se il complemento oggetto fosse “le sinistre”, visto che l’ex Avvocato del popolo si spaccia per una personalità super partes).
In realtà, il nervosismo del BisConte è comprensibile, come evidenziato anche dall’indicazione del 29 marzo come data per tenere il referendum sul taglio del parlamentari. Una fretta che indica, tra l’altro, come si ritenga che la minaccia più grave per la sopravvivenza dell’esecutivo rosso-giallo sia il leader di Iv Matteo Renzi.
Non che l’ex Rottamatore non abbia intenzione di creare difficoltà al Conte-bis, soprattutto su questioni care agli odiatissimi alleati Cinque Stelle come la revoca delle concessioni autostradali ai Benetton e la riforma Bonafede sull’annullamento della prescrizione. Italia Viva ha già annunciato che non intende «inseguire il giustizialismo» del M5S, ma l’altro Matteo ha anche ribadito di non avere interesse a staccare la spina alla legislatura. Che – si badi – è ben diverso dall’assicurare lunga vita a Giuseppi.
A Renzi, in effetti, non conviene tornare alle urne troppo presto, col rischio di vedere decimata la propria pattuglia parlamentare. Rischio che, in ogni caso, si verificherebbe anche votando per eleggere quasi quattrocento onorevoli in meno di adesso. Un appello al popolo così precoce gli dovrebbe ragionevolmente impedire di radicare il suo partito alla profondità a cui vorrebbe – e allora ecco il piano B, espresso dal laconico: «È finita la ricreazione». Un sottile e velato eufemismo per avvertire di essere più che disposto a sbarazzarsi delle ingombranti presenze dei grillini e del Presidente del Consiglio onde dettare la propria agenda riformista.
Un progetto a cui, quasi inconsapevolmente, potrebbe in realtà dar manforte la casa madre tirando troppo la corda – come ha già iniziato a fare. Passata la paura, per esempio, i dem ringalluzziti hanno come detto rivendicato uno spostamento del baricentro interno all’esecutivo: in questa direzione, ad esempio, andavano le rinnovate farneticazioni sui porti aperti, lo smantellamento dei Decreti sicurezza e lo ius soli.
Ora, non ci vuole un genio per capire che i rapporti di forza non possono variare finché non cambia la composizione del Parlamento – infatti lo ha fatto notare il neo-capo politico pentastellato Vito Crimi. Ma il Pd dovrebbe evitare a monte di fare questo giochino, perché sarebbe fin troppo facile allargarlo all’intera Nazione e sottolineare che è il Governo stesso a non rispecchiare neanche lontanamente l’attuale sentimento degli Italiani.
Ecco perché, in fin dei conti, non è necessario stare all’opposizione per essere logorati. Basta anche l’ebbrezza di un insuccesso. Per conferma, citofonare Partito Democratico.