Grande successo al Teatro delle Muse di “Cafè Chantant”
Rappresenta un’opera di enorme significato storico e culturale e segna la vicenda personale dell’artista. Recensione
Dopo oltre un mese esaltante di repliche e fino al 2 febbraio 2016 va in scena al teatro delle Muse di Roma lo spettacolo ‘Il Café Chantant’, libero adattamento proposto da Geppi Di Stasio del testo incompiuto di Eduardo Scarpetta scritto dall’autore nel 1893. Pur non essendo ritenuto dai più uno dei capolavori del commediografo che, qualche anno addietro, aveva dato alla luce ‘Miseria e nobiltà’, rappresenta un’opera di enorme significato storico e culturale e segna la vicenda personale dell’artista influenzandone la produzione successiva. Nel 1890 alla Galleria Umberto I nel quartiere San Ferdinando di Napoli era stato inaugurato dai fratelli Marino il Salone Margherita che emulando i trionfi del Moulin Rouge e delle Folies Bergère, segna la nascita del “ varietà “e del “café chantant” e diviene il tempio nostrano di importazione della Belle Epoque. Erano anni difficili, di crisi agraria e protesta contadina, il sud era flagellato da malattie fisiogene e provocate da carenze nutritive. La politica di Francesco Crispi faceva i conti con l’arretratezza di un paese in cui le condizioni di vita dei ceti più poveri erano mortificate da una visione autoritaria del potere che mirava principalmente a contenere le spinte e le rivendicazioni sociali. Il protezionismo doganale provocava frizioni diplomatiche con Parigi ma non poteva impedire che i nuovi fermenti d’Oltralpe penetrassero anche da noi, in una ventata di rinnovamento che per prima accoglieva proposte in grado di preservare la frivolezza delle idee e la spensieratezza dell’animo.
L’aristocrazia e l’annoiata borghesia intellettuale frequentatrice dei salotti bene, incurante dell’indigenza altrui, compattava la propria indolenza, non si rassegnava alla personale inedia di novità e reclamava il cambiamento nel divertimento godereccio sfrenato. E’ in questo clima di attese, tensioni e conflitti di classe che il fondatore del Teatro popolare napoletano affronta preoccupato il tema della miseria e della disoccupazione. L’avvento di quella particolare forma d’arte che è il Café Chantant e che in Italia prese il nome di Caffe’ concerto, riflette la profonda crisi che stava investendo anche il teatro nella sua espressione più nobile, il repertorio drammatico e dei classici. Da sempre attratto dal fascino delle trame del vaudeville e delle pochades di autori francesi tra cui Labiche e Feydeau, ne incorpora lo spirito con sapiente originalità adattandoli al gusto e alla tradizione partenopea. Come in ‘Lu Café Chantant’, commedia di impegno e denuncia, in bilico tra dramma e farsa, che prende spunto da un fenomeno di costume ormai dilagante in cui l’esibizione di lusso e ricercatezza ed il luccichio di paillettes, aigrettes e piume di struzzo indossate da avvenenti chanteuses stridevano con la diffusa emergenza sociale. La tessitura di Scarpetta è accorta e lungimirante e sa di profezia. Non avere portato a compimento l’ultimo dei tre atti previsti non deve intendersi come un segno di sopravvenuta sfiducia nel risultato complessivo né di svogliata trascuratezza imputabile ad un imprevisto abbandono del testo da parte dell’autore in debito di idee sul finale da riservare all’opera. Scarpetta sospende il finale e lascia ai recitanti l’estro di scrivere il terzo atto.
L’arduo interrogativo così come la gravosa incombenza sulle sorti del teatro, saranno affrontati dal buon senso e dall’ingegno dei posteri. Nella commedia si narrano le avventure di due attori di prosa, Felice(Rino Santoro) e Peppino(Geppi Di Stasio) che dopo anni di onesta professione in teatri di periferia, non riescono più a lavorare e sono in attesa ormai disperata che qualche impresario si ricordi di loro e sia disposto a scritturarli. Felice Sciosciammocca è il modello della borghesia emergente, povero e ambizioso, un guitto donnaiolo, elegante e credulone, inventato per l’occasione da Scarpetta e riproposto in seguito in altre commedie sulle spoglie ormai logore della maschera anacronistica di Pulcinella, troppo plebeo, lazzarone e servile. Si tratta di una tipizzazione che appartiene ormai al teatro di carattere. La scena iniziale è già godimento. Peppino prova a stento a declamare alcuni versi del Secondo atto del ‘Don Carlos’ di Friedrich Schiller stravolgendone il senso e il monologo dà la misura del soggetto. Non gli è da meno il buon Felice, suo maestro e mentore, all’apparenza il più assennato e meno sprovveduto tra i due ma flemma e compostezza sono fuorvianti. Le rispettive consorti, Bettina(Roberta Sanzò) e Carmela(Wanda Pirol) cantanti di operetta, ne frenano le velleità e scherniscono i due poveri diavoli al punto da minacciare di abbandonarli al loro destino se non troveranno una soluzione alla fame nera… L’animata discettazione filosofica che le coppie improvvisano fornendo difformi interpretazioni sulla fame in perenne disaccordo con la purezza dell’arte, è una lezione di napoletanità d’autore Ma quando si profana il teatro classico, Felice diventa un ciclone e rispolvera l’orgoglio oltraggiato. Un siparietto spassoso e surreale. Grande vis comica dei due interpreti con le rispettive metà a far da sponda, complice una straripante intesa.
Ne viene fuori un sottile duello fra le caricature di Peppino e Felice più che un animato scambio fra le coppie di genere. In attesa della provvidenziale lettera da Barletta, l’opportunità di dare tregua al digiuno contagioso viene incontro ai due teatranti quando Ascanio(Antonio Lubrano,) un sedicente figuro millantatore, propone loro di dare lezioni alla figlia Luisella(Carmen Landolfi) svenevole fanciulla intenzionata, nonostante l’evidenza ostile, a diventare attrice. Ma il proposito di Luisella non è sincero e insieme al fidanzato Giacomino(Eduardo Ricciardelli) attua la fuga dal padre verso l’effimero che avanza. Sfuma anche la tournée di Puglia. A questo punto non rimane che il ripugnante compromesso. Ma le scaltre consorti giocano d’anticipo. Venute a conoscenza che due facoltosi impresari, il cascamorto cronico don Carlo(Antonio Lubrano) e l’assatanata, sgraziata sorella Gegia(Marisa Carluccio) stanno aprendo a Pozzuoli un Café Chantant, non si tirano indietro. C’è posto per i sogni di tutti e a far da cerniera per la ricca trasferta provvedono i loschi emissari dei due inquietanti fratelli, il servitore di lui, Vincenzo(Nunzio Della Marca) e il segretario di lei, Totonno(Carlo Badolato). Basta un innocuo pretesto. La dignità sarà salva fuori porta e il pasto assicurato anche per Felice e Peppino. L’incontro di don Carlo con le sciantose Carmela e Betti rianimerà il vegliardo e quello di Gegia con Felice e Peppino ispirerà alla lasciva musa un impetuoso ‘ doppio sentimento’ declinato con veemenza dai malcapitati. Ascanio, tradito negli affetti, si fingerà fachiro per smascherare la figlia Luisella. Lo spettacolo è altamente godibile in una girandola di situazioni che innescano doppi sensi e battute senza tregua. L’intrattenimento giocoso col pubblico irrequieto è coinvolgente e trascinante. Si scoprono i sotterfugi di coppia ma non è più tempo di insulti e sfumano rancori e dissapori. Si ritrovano tutti appassionatamente a celebrare il ‘Café Chantant’, idolo del proibito finalmente condiviso.
E’ divertimento sfrenato. Le note di ‘Ninì Tirabusciò’ del maestro scarso di francese ma adeguato al pianoforte (Sandro Scapicchio) accompagnano l’esibizione di Betti(Roberta Sanzò) che fa il pari con ‘Lilì Kangy’ e la mossa di Carmela(Wanda Pirol). Maliziose e intriganti, licenziose oltre loro aspettativa. Il pubblico, partecipe di questa forma di teatro dell’ improvvisazione, stuzzica le esibizioni delle ‘canzonettiste’ e degli attori classici convertiti all’arte… circense ed è un crescendo di sberleffi, allusioni e doppi sensi, una gustosissima parata di macchiette e attrazioni, in un tripudio che anticipa l’avanspettacolo. Spentesi le luci del varietà, si insinua la riflessione che riempie di malinconico significato l’intera vicenda e riguarda il futuro del teatro che non può dissolversi nel crepuscolo di fine secolo. Il culmine della commedia dà spazio al sentimento degli attori e ne decreta l’immortalità. Solo pochi decenni più tardi Il Café Chantant lascerà il posto alla sceneggiata. L’attore drammatico, metafora dell’essere umano, sopravviverà a generi e tendenze e il 900 sarà prolifico di illustri opere a cui attingere copiosamente segnando il ritorno agli ammaestramenti della storia.
La Compagnia del Teatro delle Muse, guidata dal suo capocomico Geppi Di Stasio e da commedianti di tutto rispetto, ha ripercorso un’ epoca esplosiva mettendo in scena uno spettacolo di oltre due ore davvero gradevole, ben orchestrato, dai tempi comici serrati e puntuali, assolutamente originale. Straordinari gli attori. Geppi Di Stasio è lo stralunato e istrionico Peppino; Rino Santoro, grande caratterista, è Felice, stravagante con giudizio, deve contrastare l’impulsività eccessiva del discepolo e compare; una coppia assortita al meglio, due facce di una enorme teatralità napoletana. Wanda Pirol è artista versatile di lungo corso; interpreta con grinta e personalità il ruolo di Carmela moglie di Felice. Roberta Sanzò è Bettina, moglie di Peppino; sempre a suo agio e sciantosa ammaliante, diffonde simpatia prorompente nel numero di Fifì accanto a Geppi. Bravi tutti. Antonio Lubrano è il nevrastenico Ascanio nonché Carlo, l’impresario voglioso. Marisa Carluccio è la esilarante sorella mostruosa, socia in affari e in avventure non corrisposte. Carmen Landolfi è Luisella, l’aspirante attrice che con il fidanzato Giacomino, alias Eduardo Ricciardelli, avrà la parte agognata nel Cafè Chantant. Sandro Scapicchio è il maestro di musica francesizzante maldestro che prova a fare il moderatore ma sa solo suonare. Carlo Badolato è Totonno e Nunzio Della Marca è Vincenzo, i bizzarri dipendenti a stipendio dei due impresari. Appropriate le scenografie, spoglia da interno e sfavillante come si conviene nel secondo atto destinato al Café Chantant. Misurati ed eleganti i costumi. La regia è di Geppi Di Stasio che dal 1999 dirige La compagnia stabile del teatro delle Muse.
Sebastiano Biancheri
Foto di Adriano Di Benedetto