Grande successo al Teatro delle Muse di “L’Ultima Domenica”
Un modo riuscito di far teatro originale e alternativo, diritto al cuore, senza fronzoli e fluido, fondamentalmente onesto
Fino al 19 aprile 2016 va in scena al Teatro Le Muse di Roma ‘L’ultima domenica’, spettacolo denuncia sulla piaga della violenza che infesta il mondo del calcio. Scritto da Geppi Di Stasio e Andrea Pintucci. Con Geppi Di Stasio, Roberta Sanzo’, il piccolo Luca Materazzo e la band composta dagli strumentisti Andrea Pintucci, basso e vocalist, Paul Cotronei al Pianoforte e Gigi Galante al sax. Voce fuori campo di Giancarlo Governi. Il bel lavoro di Geppi si avvale della scrittura e del commento musicale dello stesso Andrea Pintucci e di immagini shock in video che hanno fatto il giro del mondo, quasi un cinegiornale senza tempo perché il ‘come eravamo’ si coniuga con l’incubo del presente storico.
La regia è di Geppi Di Stasio. Un formidabile atto di accusa che scuote le coscienze e ripercorre un fenomeno di ordinaria follia in un paese che non riesce a essere normale, una barbarie impunemente organizzata dai soliti noti e consentita dai più autorevoli organi dello Stato come dalle massime personalità che questo sport dovrebbero promuovere. La festa di un gioco negata e abbrutita da oltre quarant’anni di bollettini di guerra annunciati e mai decisamente contrastati da proclami di tolleranza zero mai sostanzialmente applicata. L’emanazione di provvedimenti emanati periodicamente rivelatisi inadeguati e altri assurdi come il divieto di introduzione di tamburi e altri mezzi di diffusione sonora che hanno il solo scopo di supportare la squadra.
Uno sport divenuto estremo non per difficoltà intrinseche nella pratica ma perché da troppo tempo ostaggio di un manipolo di balordi e di lobbies trasversali, di intrecci inestricabili per convenienze criminali che mettono a ferro e fuoco intere città, distolgono le forze dell’ordine da compiti ben più rilevanti e allontanano le famiglie dagli stadi divenuti, anziché luoghi di aggregazione gioiosa, pericolosi focolai di incidenti anche mortali.
L’eccitazione collettiva e la lotta politica che ha insanguinato il paese negli anni ’70 fa da sfondo agli avvenimenti che compendiano il decennio. Quei fatti contribuiscono a chiarire con assoluta puntualità il germe di deliranti ideologismi e contrapposizioni tra opposte fazioni, attecchito nei raduni di masse fuori controllo e mai estirpato. Lo spunto della vicenda è il dramma di Vincenzo Paparelli, tifoso laziale morto allo stadio Olimpico il 28 ottobre 1979 colpito in pieno volto da un razzo partito dagli spalti opposti, lanciato da un ragazzo diciottenne di fede contraria poco prima dell’inizio del derby.
Era in compagnia della moglie che ha assistito alla tragedia provando ad estrargli quel tubo di ferro conficcatosi nell’occhio sinistro. Così moriva un uomo pacifico, in nome della cultura di un odio che non conosce confini. Qui ha inizio la rappresentazione, con un Geppi Di Stasio essenziale ed ispirato nel ruolo del figlio di quella vittima innocente che avrebbe inaugurato una triste sequenza di morti assurde.
Per questa involontaria appartenenza, uomo simbolo del bene, non verrà nominato sulla scena perché accomunato a tante, troppe tragedie devastanti rimaste immemori e anonime, senza colpevole, senza senso, come gli interrogativi privi di risposte. Un uomo cinquantenne con un figlio adolescente, interpretato dal delizioso Luca Materazzo, entrambi tifosi. L’uomo vive la lacerazione provocata dalla perdita di un padre che era andato a vedere una partita di calcio e non ha fatto più ritorno.
Per questo motivo non ha potuto onorare una promessa vitale. Non ne ha avuto il tempo. Quel dissidio che gli impedisce ora, da genitore, di accompagnare il proprio figlio allo stadio dove non è mai stato. Una rinuncia che non consente inevitabilmente anche al proprio figlio di esercitare una passione condivisa ma inespressa. Quel figlio che non ottiene la sola spiegazione in grado di renderlo consapevole e di liberare entrambi dai fantasmi del passato.
Una famiglia che sconta colpe non sue, un bambino sottomesso al rimprovero, su cui aleggia la pesantezza di una mancanza sempre avvertita e il dialogo col padre ha contorni spigolosi, nasconde inquietudini interiori e conflitti irrisolti. I valori del rispetto, dell’onestà, una fede religiosa avuta in eredità mai approfondita ma che aiuta a tirare avanti perché ci sono principi sani irrinunciabili che non possono essere abiurati. Una moglie comprensiva e illuminata, un esempio di saggezza e tolleranza; tesse la sua trama d’amore per ricucire lo strappo e ristabilire gli equilibri perduti.
Roberta Sanzò è brava, composta, mai ridondante, madre e moglie paziente, responsabile, emotivamente partecipe del dolore comune, capace di esaltarsi nell’interminabile necrologio che suo malgrado scandisce con veemenza e ardore, una litania interminabile che si fa supplica. Un effetto di straniamento condotto insieme a Geppi, infaticabile, titanicamente proteso in un ideale passaggio di testimone che consegna al teatro la funzione sociale, educativa che il tema merita.
Viene così trasferito allo spettatore un messaggio subliminale di alto valore e di grande effetto. Il coraggio di riempire di contenuti veri parole il cui significato è stato inopinatamente stravolto, così come il maleinteso senso dell’onore frutto di menti distorte che insultano e inneggiano al crimine. E ancora un richiamo all’onestà e alla giustizia finalmente centrali, l’invito sotteso a riappropriarsi del senso della vita perché ‘non si può riavvolgere il nastro’ quando tutto è compiuto.
Una prova all’unisono, convincente, di grande impatto, dei due attori che non sottraggono energie ad un’operazione non certo commerciale, di non facile assimilazione e il cui successo condividono con pieno merito insieme ai tre musicisti. Una menzione infine per Luca Materazzo, esordiente di undici anni che sulla scena interpreta il figlio di Geppi. Non paga alcun pegno alla pur comprensibile emozione, disinvolto, grande simpatia, recita con naturalezza e anche davanti al microfono è a suo agio e mostra già di avere le idee chiare.
Un modo riuscito di far teatro originale e alternativo, diritto al cuore, senza fronzoli e fluido, fondamentalmente onesto, sempre, ancor più nel riconoscere che la violenza non è mai frutto della casualità, non appartiene per vocazione al mondo del calcio ma è rappresentativa di una società malata che deve essere rieducata e ha urgente necessità di esempi fondanti e rigorosi che non ammettono ripensamenti nell’insegnamento di valori frettolosamente rimossi.
Una cronaca autentica, rigorosa e amara, di grande intensità e priva di retorica, lo spaccato di un paese che ha fatto dei compromessi e dell’ipocrisia di stato puntellata da una capillare rete di connivenze la ragione del proprio inarrestabile declino morale. Una testimonianza di impegno civile e di enorme efficacia teatrale. Da non perdere e da diffondere negli istituti scolastici.
Sebastiano Biancheri
Foto di Adriano Di Benedetto