Günter Grass e la comprensione del nostro tempo
Quando, stupefatti, si considera che, intorno alla prima metà dell’Ottocento, la Germania erano Kant e Goethe, Fichte e Schelling, Hölderlin e Hegel, Schopenhauer, Novalis, Heine e poi Nietzsche, per non parlare di Beethoven e Schumann…

Gunter Grass
In un aforisma della parte terza di “Minima Moralia” – tenuto da Roberto Calasso in grande considerazione – Adorno scrive: “L’arte è magia liberata dalla menzogna di essere verità” (ed. it. Einaudi, p. 270, aforisma 143). Non apparirà superfluo sottolineare, che stabilire il rapporto tra arte e verità è questione ardua e altissima, da far tremare le vene e i polsi, degna di filosofi come Kant e Hegel, o come Heidegger e Adorno.
Basti ricordare, stando a questi due ultimi pensatori, il saggio di Heidegger intitolato “L’origine dell’opera d’arte”, contenuto nel volume dal titolo “Sentieri interrotti” (1950); nonché il grande trattato postumo di Adorno, dal titolo “Teoria estetica” (1970).
Eppure, essa si ripropone ogni volta che ci troviamo di fronte ad un’opera d’arte autentica. Che si tratti di arti figurative, di musica o di letteratura, ogni volta qualcosa ci scuote, ci interroga, richiede la nostra attenzione – indipendentemente dalla modalità espressiva prescelta in quel determinato momento.
Tra le forme dell’espressione letteraria, ad esempio, non apparirà superfluo affermare che il romanzo è in grado di dar voce alle inquietudini della nostra epoca, con particolare efficacia.
Il romanzo – come, per altri versi, la lirica – ha una vocazione filosofica propria, di cui sono testimoni, ad esempio, autori come Kafka, Proust, Joyce, Musil o come i nostri Pirandello, Svevo, Gadda, Calvino, Sciascia. Ossia, unico tra le forme in cui si esprime la letteratura, esso possiede la vocazione ad includere e racchiudere il mondo dentro di sé.
Ciò non significa svalutare generi letterari di importanza cruciale, come l’epica e la lirica, ma avere occhio per ciò che, realmente, accade con il romanzo. Il romanzo ha lo stesso ritmo dell’esperienza, ecco perché, nella sua specifica natura, esso può avere una valenza che, a nostro avviso, può essere definita terapeutica.
Come nella vita e nell’esperienza, nel romanzo tutto è aperto, procede con una buona dose di casualità. Mentre, nell’Iliade, nell’Eneide o nella Divina Commedia, alle spalle della parola letteraria avvertiamo forze metafisiche in grado di pre-determinare il corso degli eventi in maniera significativa.
Il presente incalza
Tra i romanzi della letteratura in lingua tedesca della seconda metà del Novecento, “Il tamburo di latta” (1959, ed. it. Feltrinelli) di Günter Grass (1927-2015) riveste, senza dubbio, un ruolo di particolare rilevanza. Tramontata la stella della Mitteleuropa, con Kafka nel ruolo di diamante principale incastonato nella corona di quella splendida civiltà letteraria – basti ricordare i nomi di Kraus, Hofmannsthal, Schnitzler, J. Roth, Zweig, Musil, H. Broch.
Tramontato l’astro di Thomas Mann, che ha dominato tutto l’arco della vita culturale europea di primo Novecento, analogamente al suo sodale Benedetto Croce – e la scelta di Croce di dedicare a Mann la “Storia d’Europa nel secolo decimonono” del 1932, non è altro che il segno di un’affinità profonda, sotto la costellazione dello snobismo liberale, per citare il titolo del bel libro di Elena Croce del 1964.
Venuto meno tutto questo, conclusa la Seconda guerra mondiale, scoperto il vaso di Pandora degli orrori della Shoah, iniziata la Guerra fredda, mentre l’Occidente è stretto tra uno sviluppo tecnico-scientifico senza precedenti – che mette la letteratura e i saperi umanistici nell’angolo – e un capitalismo globale sempre più scatenato, ecco che gli scrittori cominciano a interrogarsi sulla sopravvivenza della specie–uomo in un tempo come il nostro.
La prima associazione che ci sovviene, a proposito di “Il tamburo di latta” di Grass, è sotto il segno dell’affinità. Un altro romanzo incredibile, debordante, in grado di infrangere tutte le regole, era stato pubblicato, in lingua tedesca, qualche decennio prima.
Si tratta di “Auto da fé” di Elias Canetti (1905-1994). Uscito nel 1935, quando Canetti ha trent’anni, con il titolo “Die Blendung” (“Abbagliamento”), esso è l’annuncio di un autore dalle potenzialità straordinarie.
In maniera simile, quando Grass pubblica “Il tamburo di latta” ha trentadue anni. Ad accomunare i due libri è il senso di un’ironia, di un umorismo, di una capacità di sorridere di natura superiore. La vita è gioco, confusione, scatto di nervi, capacità di barare, sberleffo, presa in giro, casualità, avventura, pezzo di bravura.
Tutto l’opposto di ciò che i Grandi dello spirito europeo avevano immaginato, in duemila anni di Tradizione occidentale. Siamo i soggetti di un’avventura picaresca e straordinaria, carica di drammi e di tragedie, che – al di là delle sottigliezze – ci accomuna tutti. Per cui, è assai meglio rappresentarsi nelle vesti un nano-matto, come avviene in “Il tamburo di latta” di Grass, che non in quelle di una natura dotata di qualità di natura superiore. Totò invece di Friedrich Nietzsche?
Rovesciare il guanto
Ora, è giusto prendere quest’affermazione con i guanti. Se avessimo passato la nostra vita a guardare i film di Totò, invece che spendere tanto tempo sul pensiero di Nietzsche, il risultato non sarebbe stato lo stesso. Ma ciò non significa che questa piccola provocazione non abbia il suo senso.
Quando ci si interroga sulle ragioni della Shoah. Quando si prova a dare una risposta al perché circa sei milioni di ebrei furono sterminati nei forni crematori. Quando, stupefatti, si considera che, intorno alla prima metà dell’Ottocento, la Germania erano Kant e Goethe, Fichte e Schelling, Hölderlin e Hegel, Schopenhauer, Novalis, Heine e poi Nietzsche, per non parlare di Beethoven e Schumann, bisogna rispondersi che qualcosa, nel rapporto tra la Germania e la sua idea, bestiale, di disciplina e serietà, non ha funzionato.
Ed è qui che il genio di Grass giganteggia. Come noto, Nietzsche è ancora preda del mito della volontà di potenza. Ossia, dell’idea che ci siano uomini di primo rango e di secondo. L’idea del super-uomo, che emerge nel suo pensiero maturo, non lascia spazio a dubbi. Anche la figura di Zarathustra risponde ad un’esigenza analoga. Sebbene, ad un’analisi ravvicinata della filosofia di Nietzsche, le cose appaiano più complesse, profonde e sfumate.
Si tratta, del resto, di un’idea di provenienza greca, che non è stata sottoposta al filtro del cristianesimo, dell’illuminismo, del marxismo. Operazione necessaria, in questo caso. Grass comprende tutto questo. Grazie al suo fiuto politico. Alla grande scuola della socialdemocrazia tedesca.
Ne viene, allora, fuori la figura di Oskar Matzerath, il tamburino di latta, che vive e filtra tutta un’epoca della storia tedesca, attraverso la sua passione ossessiva e nevrotica per il suo tamburo di latta.
La consapevolezza di Grass rispetto alla drammatica crisi del nostro tempo – “Il tamburo di latta” sfocerà nella Trilogia di Danzica, che comprende “Gatto e topo” (1961) e “Anni di cani” (1963), entrambi pubblicati da Feltrinelli – è testimoniata da una frase che compare al principio di “Il tamburo di latta”: “…non esistono più gli eroi da romanzo, perché gli individualisti non esistono più, perché l’individualità ci è scappata di mano, perché l’uomo è solo, ogni uomo solo allo stesso modo, senza alcun diritto a una solitudine individuale, e costituisce una massa solitaria senza nomi e senza eroi” (p. 11, corsivo nostro)…