Hannah Arendt, non solo “La banalità del male”: totalitarismo e spazio pubblico
Azione politica e riflessione sul sacro, la ricca la produzione filosofica di una importante intellettuale
Se si vuole inquadrare teoricamente, da un punto di vista storico-filosofico e di storia del pensiero, la riflessione di Hannah Arendt, affidata a libri memorabili, bisogna dire che il suo pensiero cade sotto il segno della filosofia politica o della teoria politica. Ciò che va aggiunto, però, è che, rispetto a quando Hobbes, Spinoza, Kant o Rousseau, elaborarono la loro filosofia politica, qualcosa di profondo è cambiato sotto il segno della filosofia tout court.
Una svolta epocale
Ciò che è accaduto in ambito filosofico negli ultimi due secoli – poco più di duecento anni fa, nel 1821, Hegel, ormai Professore a Berlino, pubblicava i suoi “Lineamenti di filosofia del diritto” – appartiene a quel processo innestatosi dopo la morte dello stesso Hegel. Fu Karl Löwith, storico della filosofia allievo di Husserl e di Heidegger, nel suo libro del 1941 intitolato “Da Hegel a Nietzsche”, a dare, con maggiore lucidità, conto di questa trasformazione avvenuta nel passaggio dalla filosofia moderna alla filosofia contemporanea.
Hegel fu l’ultimo filosofo metafisico dell’Occidente. Con il suo gemello ribelle Schopenhauer, con Kierkegaard e Stirner, con Marx, e soprattutto con Nietzsche, il pensiero occidentale abbandona un’idea di pensiero filosofico come teoria compiuta e sistematica della realtà. Ma soprattutto abbandona, quasi del tutto, il suo rapporto con il divino, che con tanta forza lo aveva caratterizzato dai tempi di Platone.
Una scuola impareggiabile
Hannah Arendt cresce alla scuola di Heidegger e Jaspers, con cui intratterrà due dei carteggi di maggiore significato per la cultura del Novecento. Si forma, cioè, in un ambiente filosofico di radicale rinnovamento per quanto concerne l’esperienza del pensiero. Non solo per la fondazione dell’esistenzialismo, che Heidegger in seguito rifiuterà.
Quanto perché sia Heidegger che Jaspers, meditando profondamente Kierkegaard, Nietzsche, Husserl, avevano ben presente l’idea che la filosofia dovesse superare la sua forma tradizionale, per essere all’altezza della sfida posta dai nuovi tempi.
Quando “Vita activa”– il suo capolavoro di teoria politica del 1958 – verrà pubblicato in tedesco, Arendt ne manda una copia ad Heidegger. Accompagnandola con la frase: “ha cominciato a prendere forma fin dai primi tempi di Freiburg, e ti è debitore, sotto ogni aspetto, di quasi tutto” (lettera 89, ed. Einaudi).
La terribile esperienza del Male contemporaneo.
Da pensatrice di origini ebraiche, l’esperienza della Seconda guerra mondiale e della Shoah dovette essere, per Hannah Arendt, sconvolgente. Almeno da quanto traspare dai suoi due grandi libri dedicati al tema: “Le origini del totalitarismo” del 1951 e “La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme” del 1963.
Difficile comprendere filosoficamente il problema del nazismo e la sua connessione con il Male, senza il contributo di Hannah Arendt. Si tratta di una pagina memorabile del pensiero contemporaneo, cui possono essere accostate soltanto le riflessioni di Adorno, in molte delle sue opere principali.
Le parole del pensiero
Se la riflessione sul male costituisce l’aspetto critico-negativo del pensiero di Hannah Arendt, l’elaborazione del suo pensiero politico ne rappresenta il lato costruttivo-positivo. Al cuore dell’esperienza della politica, c’è, per Arendt, la polis greca e il modo in cui in essa venne elaborato il problema dello spazio pubblico. Spazio pubblico in cui potevano risuonare le gesta e le parole dei cittadini, fossero o meno grandi.
Non meno importante il contributo del cristianesimo, per quanto concerne il fatto fondamentale dell’inizio e della natalità. Arendt che si era confrontata, nella sua dissertazione universitaria, con il concetto di amore in Agostino, radicalizza il problema della libertà come capacità, per ogni uomo, di cominciare qualcosa di nuovo.
Proprio questo, il totalitarismo sia nazista che stalinista, aveva provato a distruggere. Ne deriva un’esaltazione della dimensione della pluralità, che ha pochi eguali nella riflessione contemporanea, almeno per come Arendt la elabora. Ciò accade quando, sulla spinta di parole nuove, il pensiero diviene un’esperienza viva.