Hegel, Le parole dell’Assoluto
Cosa possiamo trovare, in un pensatore oscuro come Hegel, che sembra non avere più molto da dire ad un mondo come il nostro?
L’epoca che va da Goethe a Hegel, da Kant a Schopenhauer, da Schiller a Hölderlin, da Mozart a Beethoven, l’epoca dell’idealismo tedesco, è l’ultima delle grandi epoche della cultura europea. In un suo “Requiem” del 1908, Rainer Maria Rilke scrisse: “Le parole grandi / dei tempi in cui gli eventi erano ancora / visibili, non sono più per noi. / Chi parla di vittorie? Resistere oggi è tutto”. Se questa diagnosi, relativa alla scomparsa delle parole grandi, era valida per Rilke, l’autore delle “Elegie Duinesi” e dei “Sonetti a Orfeo”, si immagini fino a che punto ciò sia valido per noi, che viviamo nell’epoca di Donald Trump e del Gabibbo.
Heidegger e la sua scuola, insieme ad altri (tra cui, appunto, lo stesso Rilke), hanno avuto il merito di conservare qualcosa di quell’epoca, caratterizzata da tensioni spirituali e culturali tanto straordinarie. All’interno di questa scuola, Karl Löwith ha sviluppato le grandi intuizioni filosofiche di Heidegger e di Husserl in senso storico-filosofico, ripercorrendo con acume critico l’epoca che da Hegel giunge fino a noi.
Così, in un’afosa serata estiva trascorsa a Roma, può capitare di imbattersi, in una delle ricche bancarelle di libri usati che popolano la Capitale, per la modica cifra di cinque euro, nel volumetto di Löwith intitolato “Hegel e il cristianesimo”, pubblicato dall’editore Laterza nel 1976, fra l’altro l’anno della morte di Martin Heidegger.
Il rapporto tra filosofia e religione è sempre stato cruciale, da quando Socrate fu accusato dal tribunale ateniese di introdurre nuove divinità, a quando Giordano Bruno fu arso vivo a Campo de’ Fiori, per volontà della Congregazione del Santo Uffizio, il 17 febbraio 1600. In Hegel, la filosofia supera la religione nel senso della parola tedesca “Aufhebung”, categoria centrale del metodo hegeliano, ossia superandola e conservandola nello stesso tempo.
“L’assoluto sapere dell’Assoluto non ha più bisogno di una religione ‘positiva’” (pp. 9-10). Dagli scritti teologici giovanili al regno degli spiriti che, sotto il segno di Schiller, conclude la “Fenomenologia dello spirito” (1807), alle “Lezioni sulla filosofia della religione”, il rapporto tra filosofia e religione è, in Hegel, profondamente strutturato.
Anche il paragone tra Socrate e Cristo e la superiorità accordata al primo, nel pensiero del giovane Hegel, vanno in questo senso (non sarà più così nello Hegel maturo, che negherà valore a questa contrapposizione, coerentemente alla svolta “reazionaria” del suo pensiero). In ogni caso, in questa dialettica di filosofia e religione, deve essere vista culminare la civiltà europea nel suo bimillenario sviluppo, avviatosi sotto il segno della filosofia greca e della teologia cristiana.
Non è un caso che l’ultima delle grandi opere teoretiche, l’“Enciclopedia delle scienze filosofiche” (1817-1830), tra l’altro l’unica che contenga il sistema nella sua interezza e che fu resa in italiano da Benedetto Croce nel 1907 per Laterza, si concluda con un passo dalla “Metafisica” di Aristotele sul pensiero che pensa sé stesso.
Con la morte di Hegel si concluse, di fatto, anche la metafisica europea. Ossia, quella forma mentis che, nutrita di pensiero greco e di cristianesimo, sostanziava di un anelito trascendente la propria visione del mondo. Ciò che andrà perduto sarà la possibilità di dare una lettura totale e unitaria della realtà, processo favorito dalla progressiva specializzazione della scienza, che andrà frazionandosi in rami sempre più indipendenti uno dall’altro, si pensi solo a quanti sono gli ambiti in cui si ramifica la medicina, esperienza concreta che ognuno di noi è in grado di fare in maniera diretta.
Cosa possiamo trovare, allora, in un pensatore oscuro come Hegel, che sembra non avere più molto da dire ad un mondo come il nostro? Quello che è possibile trovare in ogni classico del pensiero o della letteratura europei: la pienezza di una parola corrispondente ad un’epoca in cui l’Occidente pensava in grande. Si pensi ai “Dolori del giovane Werther” (1774) di Goethe, che ebbe con Hegel uno scambio più che occasionale, e si rifletta sul fatto che quel modo, disperato e romantico, di concepire l’amore, apparterrà ad ogni giovane di ogni tempo e luogo.
Analogamente, l’insistenza martellante di Hegel sullo spirito, l’idea, l’assoluto, deve essere letta come l’esaltazione di quella peculiarità che ci rende uomini, dimenticando la quale non potremo che perderci definitivamente. Forse è vero che, ormai, non è più possibile filosofare come Hegel, che la metafisica è del tutto tramontata a favore della scienza, della tecnica e dell’informatica, che nell’epoca dei buchi neri e dei neutrini diviene sempre più difficile ragionare sul divino che è in noi. Ma ci resta la possibilità di ascoltare, ancora una volta, la parola del passato, sperando che ci guidi in un difficile presente.