Hugo von Hofmannsthal: la forma del cristallo
La Vienna dei primi quattro decenni del Novecento brulicava di genio, come raramente si è visto nel passato
La Vienna dei primi quattro decenni del Novecento brulicava di genio, come raramente si è visto nel passato europeo e occidentale. Forse soltanto l’Atene di Pericle, la Firenze del Rinascimento e la Germania (ancora in attesa di unificazione) dei primi anni dell’Ottocento, possono essere considerate sue degne progenitrici.
Basta fare nomi come Freud e Wittgenstein o Schnitzler e Musil, per rendersene conto.
Una figura serena e gentile
Tra di essi, Hugo von Hofmannsthal (1874-1929) – poeta, drammaturgo e narratore – fu una delle figure più profonde, preziose, illuminanti.
A dominare l’epoca fu una sensazione di crollo, il presentimento di uno schianto, prima vissuto come anticipazione angosciosa e poi sperimentato drammaticamente nella Prima guerra mondiale. A crollare, con l’Impero absburgico, era la vecchia Europa. Hofmannsthal era una figura serena e gentile, ma niente affatto ferma alla superficie, banale e rassicurante, delle cose.
Allo stesso modo di Rilke, egli fu un coltivatore dell’Assoluto nella parola. Si espresse in capolavori drammaturgici come “La Torre”, la cui edizione italiana per Adelphi è accompagnata da un lungo saggio di commento di Massimo Cacciari, intitolato “Intransitabili utopie”. Né fu minore il suo talento di narratore, basti pensare a quell’altro dei suoi capolavori, che è “Andrea o I ricongiunti” (ed. it. Adelphi).
Una studiosa e germanista colta e raffinata come Gabriella Bemporad, ha permesso che la ricezione di Hofmannsthal avvenisse, nel nostro paese, ad alto livello. Innegabile, dunque, più in generale, il fondamentale ruolo di mediazione svolto dalla germanistica italiana, per la conoscenza degli autori di lingua tedesca.
La forma dell’aforisma
A dimostrazione della poliedricità e pluralità del suo genio, c’è anche una perla speculativa come “Il libro degli amici” (1922, ed. it. Adelphi), dove Hofmannsthal si confronta con lo stile aforistico.
L’aforisma deve essere interpretato come la forma più adatta ad esprimere la dimensione della contemporaneità. Un poeta di alto livello come Gottfried Benn, diede una lettura particolarmente pregnante degli aforismi di Nietzsche. Spiegando, che quando si è privi di un sistema – e non per scarso talento filosofico, ma perché i sistemi non sono più possibili – si può procedere solo per episodi.
Grande autore di aforismi fu Karl Kraus, anche lui un gigante del panorama letterario viennese, ma diverso da Hofmannsthal come il sole rispetto alla luna. L’aggressività programmatica di Kraus, dovuta alle esigenze della sua impostazione satirica nonché al suo carattere, lo rendono molto distante dall’atteggiamento apollineo di Hofmannsthal, sebbene essi condividessero più di un’istanza in comune.
Altro grande autore di aforismi fu Walter Benjamin, soprattutto con “Strada a senso unico” (ed. it. Einaudi). Di Benjamin, Hofmannsthal accolse nella sua rivista il grande saggio sulle “Affinità elettive” di Goethe. Non fu cosa da poco, nella sfortunata vita di Benjamin, trovare, seppure per poco, un protettore di un simile calibro.
Non può essere dimenticato, da questo punto di vista, un libro come “Minima Moralia. Meditazioni della vita offesa” di Theodor W. Adorno, in cui l’arte tedesca dell’aforisma raggiunse il suo culmine.
Modelli tedeschi e discendenze italiane
Il modello di Hofmannsthal furono, però, le “Massime e riflessioni” di Goethe. Di quest’opera, nel “Libro degli amici” (ed. it. p. 83), è detto – con un’espressione divenuta celebre – che da esse si impara più che da tutte le università tedesche messe insieme. Ed è questo, come si accennava, il nesso che lo legava a Benjamin. Due decenni dopo, infatti, Heidegger renderà esplicito il suo rifiuto di Goethe, nella “Lettera sull’umanismo”.
Per Heidegger, che era tutto pro Hölderlin, la posizione di Goethe era connotata in senso umanistico e metafisico e, come tale, da respingere. Hofmannsthal e Benjamin, ma anche Thomas Mann e Adorno – e Nietzsche prima di tutti loro – percepivano, viceversa, tutta la screziata profondità e ricchezza dell’autore del “Faust” e dei “Dolori del giovane Werther”.
Il “Libro degli amici” era amato da Cristina Campo, gemma purissima della mistica italiana contemporanea, nonché poetessa e intellettuale raffinatissima. La Campo aveva ereditato, da Hofmannsthal, il riserbo e l’asciuttezza, nonché la ricerca di una forma cristallina.
Sembra che Hofmannsthal scrivesse in un tedesco tra i più perfetti che si conoscano, almeno per quanto concerne il secolo scorso. Ed è un peccato che egli non vide il 1933 e l’ascesa al potere di Hitler. Il suo antagonista Kraus ne tirò fuori una delle sue opere più straordinarie, quella “Terza notte di Valpurga” pubblicata postuma nel 1952.
Il cristallo si infrange
La fine giunse, infatti, impietosa e drammatica. Agli antipodi di un altro gigante del Novecento come Thomas Mann – che, di fronte al suicidio del figlio Klaus, manifestò distanza, se non disprezzo – Hugo von Hofmannsthal morì di emorragia cerebrale, due giorni dopo il suicidio del figlio Franz, nel 1929. Giustamente, in una sua lettera, Benjamin parlò di “catastrofe”. Sotto il peso del dolore, la sostanza cristallina della mente di Hofmannsthal si era infranta senza rimedio.