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I casi di Ilaria Sula e Sara Campanella: “Non ti lascerò mai”. Se l’amore diventa una condanna

Giovani donne, con vite, sogni e progetti spezzati violentemente dalla mano di chi diceva di amarle e invece le uccide

Violenza sulle donne, pexels-rdne

Violenza sulle donne, pexels-rdne

I nomi di Ilaria Sula e Sara Campanella sono solo gli ultimi due di una tragica lista che continua drammaticamente ad allungarsi. Giovani donne, con vite, sogni e progetti spezzati violentemente dalla mano di chi diceva di amarle.

L’omicidio di Ilaria Sula

Ilaria, 22 anni, studentessa di statistica all’Università La Sapienza di Roma, trovata senza vita, nascosta in una valigia abbandonata vicino Roma. Chissà se, tra una lezione e l’altra, si era mai imbattuta in quei dati che raccontano di oltre 100 donne uccise ogni anno in Italia dal partner o dall’ex-partner. Il suo assassino? L’ex fidanzato, Mark Antony Samson, che ha confessato di averla uccisa nell’abitazione che condivideva con i genitori. Sara, stessa età, uccisa in pieno giorno a Messina dal suo persecutore Stefano Argentino, dopo mesi di stalking ossessivo. Due vicende diverse, ma accomunate da dinamiche psicologiche simili, profondamente radicate in relazioni tossiche fondate sul controllo e sulla possessività.

Cosa succede nella mente di chi ama in questo modo perverso? La psicologia ci parla della personalità narcisistica covert (Cain, Pincus e Ansell, 2008), caratterizzata da apparente tranquillità e passività, che nasconde però fragilità profonde e una rabbia repressa, pronta a esplodere quando si sente minacciata. Samson e Argentino sembrano corrispondere tragicamente a questo profilo: individui che percepiscono l’autonomia e il rifiuto della compagna non come una scelta libera e legittima, ma come una ferita insopportabile al loro fragile ego.

L’incapacità di accettare un no è generazionale

Questa incapacità di accettare un “no” è sintomatica di una generazione cresciuta nell’illusione di dover sempre ottenere ciò che desidera, abituata a una gratificazione immediata e incapace di tollerare frustrazione e rifiuto. Una generazione che fatica profondamente ad accettare la perdita: non si accetta una sconfitta al videogioco, la fine di un’amicizia, l’assenza di un like, un brutto voto a scuola. E, ancor più, non si accetta la perdita dell’amata, vissuta non come un distacco naturale, ma come un’umiliazione insostenibile. In fondo, ciò che va in frantumi è il ruolo che si credeva di aver conquistato: quello di chi possiede, comanda, vince.

Secondo la teoria del ciclo della violenza elaborata da Walker (1979), queste relazioni passano attraverso fasi ben precise: l’accumulo della tensione, l’esplosione della violenza e, spesso, una riconciliazione illusoria. Tuttavia, nei casi estremi come quelli di Ilaria e Sara, il ciclo si spezza brutalmente con l’irreparabile: l’eliminazione fisica della vittima, vista come unica via per ristabilire il controllo e vendicare la propria vulnerabilità.

La dipendenza affettiva

Anche Bowlby (1969), con la teoria dell’attaccamento insicuro, ci offre strumenti utili per comprendere come certe personalità sviluppino relazioni patologiche, basate sulla dipendenza affettiva e sul controllo dell’altro per mitigare un’insopportabile angoscia di abbandono.

Questi casi non sono solo episodi isolati o raptus improvvisi. Riflettono piuttosto una visione distorta e pericolosa delle relazioni, in cui l’altro non è visto come persona autonoma, ma come oggetto da possedere e dominare.
L’educazione affettiva, il riconoscimento dei segnali precoci di manipolazione emotiva e una cultura del rispetto e dell’autenticità relazionale diventano quindi strumenti fondamentali per prevenire tragedie simili.

Il processo emotivo che conduce a queste degenerazioni non è sempre patologico in sé: può essere il frutto di una tensione interna che, come una fuga di gas in un appartamento, diventa pericolosa solo quando manca l’ossigeno del legame. Se tutte le finestre sono chiuse, se la relazione è fittizia, se manca la possibilità di esprimersi in modo autentico, la pressione aumenta e il rischio di esplosione diventa reale.

La dinamica di coppia

Come avviene per i gas combustibili, esiste una soglia critica, misurata in parti per milione (PPM), oltre la quale basta una scintilla per distruggere tutto. Nella dinamica di coppia, quella soglia si supera quando viene meno la possibilità di co-regolazione emotiva: la relazione non è più contenitore, ma detonatore.

Quando invece le finestre sono aperte — quando esiste uno spazio relazionale sicuro, fondato su empatia, rispetto e verità affettiva — anche la tensione può trovare un canale di sfogo.
Sulla base del modello della regolazione affettiva interpersonale (Siegel, 1999; Schore, 2003), le relazioni autentiche hanno un potere neurobiologico: modulano l’attivazione emotiva, offrono protezione e restituiscono senso.
Al contrario, un contesto relazionale chiuso, individualista, frammentato, amplifica il malessere fino a renderlo insostenibile.

In questa cornice si inserisce anche un fenomeno sempre più diffuso e meno visibile: la relazione intesa non più come spazio di condivisione, ma come funzione utilitaristica. Un mezzo per il proprio tornaconto, una vetrina per il successo personale, una conferma narcisistica da riscuotere. Si abita la relazione solo in parte, mai per intero: non si attraversano gli spazi profondi dell’intimità, della confessione, dello svelamento autentico.

L’altro non è più un luogo da abitare, ma un oggetto da utilizzare. Ed è proprio in questo svuotamento affettivo che la violenza può attecchire, perché dove manca la verità relazionale nasce la finzione del controllo. Oggetto che diviene addirittura arredo di contesto, come nel caso del figlio da proteggere pur sapendo l’atroce delitto da lui commesso.

Il ruolo del figlio

Un figlio che con il suo comportamento sconquassa il progetto di famiglia, di genitorialità, che non può essere rivelato ma taciuto e nascosto perché lo svelamento destrutturerebbe la sceneggiatura accuratamente esposta sui social e al mondo della famiglia perfetta. Ecco allora la difesa del proprio figlio non più dal punto di vista della mamma che protegge il proprio cucciolo, ma quella esclusivamente autoriferita della mamma che protegge se stessa dalla brutta verità di un figlio, come quelle mamme che rifiutano le diagnosi di superabili disturbi dell’apprendimento a scuola per non risultare le sfigate del gruppo whatsapp. Anche questa è dinamica relazionale. In verità, la prima e basilare dinamica relazionale, attraverso la quale si struttura da sempre la personalità di ogni individuo.

È principalmente nella famiglia che la relazione si sviluppa e si apprende. È nella famiglia che l’individuo impara a riconoscere l’altro. Ma se al concetto di famiglia si sostituisce quello do familiarismo, tutto cambia. Il nucleo familiare non vede più come collante le arcaiche dinamiche affettive ma solo quelle utili alla restituzione sociale. Si diventa collusi per sopravvivere al dolore del fallimento escludendo l’altro “la vittima” da ogni progetto di vissuto e significato! L’altro non arriva come capitale umano ma solo come oggetto d’intralcio!

Per questo la responsabilità è collettiva. Perché siamo esseri relazionali, e quando le nostre connessioni si fanno vuote o artificiali, non solo ci disconnettiamo dagli altri ma anche da noi stessi. E, in quel vuoto, la violenza può crescere indisturbata.

Le storie di Ilaria e Sara devono diventare uno stimolo urgente per un cambiamento collettivo, che ci porti ad aprire gli occhi, a riconoscere la violenza prima che diventi irreversibile, a educare i giovani e le giovani al rispetto, alla libertà affettiva e alla gestione sana delle relazioni. Perché nessuno, mai più, debba essere vittima di chi non sa amare senza distruggere.

Se ti senti in pericolo o conosci qualcuno che lo è, chiama subito il 1522. Non sei sola. È il momento di spezzare il silenzio.

Dr. Luca Giberti (Laureando in Psicologia del Lavoro e delle Organizzazioni)

Dr. Massimo Bendetti (Psicologo e Psicoterapeuta)

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Bibliografia

  • Bandura, A. (1977). Social learning theory. Englewood Cliffs, NJ: Prentice-Hall.
  • Bowlby, J. (1969). Attachment and Loss: Volume I. Attachment. New York, NY: Basic Books.
  • Cain, N. M., Pincus, A. L., & Ansell, E. B. (2008). Narcissism at the crossroads: Phenotypic description of pathological narcissism across clinical theory, social/personality psychology, and psychiatric diagnosis. Clinical Psychology Review, 28(4), 638–656. https://doi.org/10.1016/j.cpr.2007.09.006
  • Herman, J. L. (1992). Trauma and Recovery: The Aftermath of Violence—From Domestic Abuse to Political Terror. New York, NY: Basic Books.
  • Schore, A. N. (2003). Affect Regulation and the Repair of the Self. New York: W. W. Norton & Company.
  • Seligman, M. E. P. (1972). Learned helplessness. Annual Review of Medicine, 23, 407–412. https://doi.org/10.1146/annurev.me.23.020172.002203
  • Siegel, D. J. (1999). The Developing Mind: How Relationships and the Brain Interact to Shape Who We Are. New York: Guilford Press.

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