Il caso “Non è l’arena”: perché nasce o muore un programma tv?
Forse non è edulcorato ma sostanzialmente la TV vende il pubblico ai pubblicitari
La televisione accompagna gran parte della nostra vita e con formule ed emittenti diverse ci informa, ci fa divertire e ci fa passare il tempo. Perché nasce un programma e perché viene chiuso anzitempo? Quali sono i meccanismi che regolano il processo produttivo della tv?
Non è l’arena, informazione libera e allarmi sulla censura
Il caso della chiusura di Non è l’Arena su La7 ha riacceso l’interesse del pubblico sul tema chiusura di un programma tv. La materia è complicata ma cercherò di renderla semplice e chiara, evitando tecnicismi quando è possibile. Ho lavorato per oltre 40 anni dal 1971 al 2014 in Rai, e non solo, partendo dalla radio e arrivando a ricoprire ruoli importanti in tv, come autore o regista, nella realizzazione di sceneggiati e programmi di ogni tipo, dallo spettacolo, all’intrattenimento, all’informazione, ideando format e gestendo il lavoro di molti redattori, conduttori anche alle prime armi, e alcuni tra più famosi.
Nel corso della lunga attività molto spesso mi sono sentito chiedere come si fa a farsi approvare un programma. A chi ci si deve rivolgere, con quali possibilità di essere ascoltati.
Il pubblico, spesso non ha ben chiaro come funzioni la macchina della tv. C’è uno specifico per ogni medium, anche se valgono un po’ le stesse regole per tutti i mass media, dai giornali al cinema. Non li posso affrontare tutti, sarebbe anche troppo noioso. Mi limiterò a come funziona il meccanismo della proposta e della realizzazione in tv, arrivando fino al perché un programma viene chiuso.
In tv si vende un pubblico ai pubblicitari
La convinzione che mi sono fatto in tanti anni è che la televisione, in Italia, sia lo specchio della nostra realtà. C’è un gioco di interdipendenza tra società e mezzo televisivo per cui si influenzano a vicenda ma chiaramente è la società quella che determina il corso delle cose e i meccanismi attuativi, non viceversa. Inoltre, altro assunto importante, non si fanno i programmi per il piacere del pubblico. Questa è una illusione degli spettatori e di molti addetti ai lavori, succede meno per i funzionari. La verità dura da digerire è che la tv vende settori di pubblico (o target) alla pubblicità.
Un programma che punta a realizzare 3 milioni di audience medio sia quotidiano che settimanale, avrà un determinato valore per l’inserzionista pubblicitario, che pagherà in base alla durata del suo spot e della sua inserzione o passaggio promozionale e in base all’orario di messa in onda. Se quel pubblico non sarà raggiunto l’emittente dovrà rifondere l’inserzionista per la parte di pubblico mancante, rispetto alle previsioni. Se il risultato dell’ascolto sarà molto deludente, l’emittente potrebbe anche decidere di sopprimerlo perché di fatto diventa una perdita tenerlo in onda. Laddove il pubblico dovesse superare le previsioni beh, allora si parlerebbe di successo e certamente l’inserzionista sarà indotto a ripetere l’investimento, ovviamente maggiorato.
Il canone un limite più che un vantaggio
Molti pensano che la Rai, avendo il canone, abbia meno bisogno di pubblicità. In effetti il canone è sempre stato un agevolazione importante ma lo è sempre meno. Anzi può essere visto addirittura come un limite per l’azienda pubblica. Qualcosa che la tiene legata al giogo dei partiti di Governo e non solo, da un lato, con imposizioni a livello dirigenziale e di programmazione, di indirizzo e di sviluppo e dall’altro le impedisce di massimizzare gli introiti pubblicitari, che per lei si debbono bloccare a un quarto della raccolta possibile annuale, per lasciare alle tv commerciali la parte più cospicua.
Sulla carta è ineccepibile ma di fatto è un limite enorme per l’azienda. La Rai potrebbe fare a meno del canone ed entrare sul mercato pubblicitario con molta forza in più della concorrenza, anche per un primato negli ascolti che, tra alti e bassi, da sempre la caratterizza. Se ciò avvenisse certamente la quota di pubblicità sottratta alle tv commerciali sarebbe cospicua e ne comprometterebbe la stessa esistenza.
La proposta nasce da una lunga sequenza di analisi
Le proposte arrivano sempre da dentro l’azienda, dal cerchio di addetti ai lavori che abitualmente collaborano con la struttura e con la rete. La proposta nasce solitamente negli uffici delle strutture predisposte e della direzione di un’emittente. Sono i dirigenti che, assieme ad autori e registi di loro fiducia, scelgono tra i progetti sul tavolo o lanciano la proposta di una nuova trasmissione, con dei riferimenti già definiti. Per esempio che tipologia di programma, in onda in che rete, in che orario, con quali conduttori e quali finalità ma anche con quali costi (budget). Il gruppo di lavoro si mette a pensare e a ideare oppure, se il progetto era già scritto, a valutarne le modalità di realizzazione e i costi.
Perché si è scelto di fare quel preciso programma? Qui le motivazioni possono essere esplicite e implicite. Le prime sono solitamente legate a una fascia oraria in cui bisogna cambiare la comunicazione, incrementare l’ascolto, abbassare i costi salvaguardando lo share. Le secondo sono legate alla necessità di trovare un’idea per far lavorare il conduttore tale, magari non perché sia stato imposto da un politico ma anche perché sotto contratto con l’azienda, sia Rai che Mediaset, e quindi bisogna usufruire delle sue capacità professionali.
Come nacque la Prova del Cuoco
Quando si pensò di utilizzare il format Ready Steady Cook, il direttore di Raiuno Agostino Saccà, d’accordo con la Endemol, che deteneva i diritti di sfruttamento del format inglese, aveva deciso l’orario ma non la conduzione. Si pensò a Marisa Laurito e venne fatto un provino che non lo convinse. Si pensò anche a Gianfranco Vissani, di cui Saccà era amico ma si convenne che non poteva essere un cuoco a fare da arbitro in una sfida tra cuochi. Saccà voleva riportare in Rai Antonella Clerici, uscita da una esperienza negativa a Canale5, A tu per tu, un programma che conduceva a metà con Maria Teresa Ruta e in cui subentrò anche Gianfranco Funari nell’ultimo mese, per risollevarne le sorti ma senza riuscirci.
Quando un programma nasce male rimetterlo in piedi è quasi impossibile. Così Antonella colse al volo l’opportunità di tornare in Rai con una quotidiana. Da attenta conduttrice qual è sempre stata, sapeva che solo la quotidiana ti dà lo zoccolo duro di successo presso il pubblico, e ti permette di fare anche altro. Avendo lavorato bene con Antonella a Unomattina, negli anni precedenti, venni chiamato a definire le linee del progetto per la parte Rai. Il format infatti era solo una sfida tra due cuochi e durava mezz’ora.
Lo spazio sulla rete era almeno di un’ora e dovevamo riempire quindi con altri contenuti la parte mancante. Per di più c’era un pregresso negativo tra Raiuno e Antonella. Avrebbe dovuto condurre lei Linea Verde l’anno prima, quando all’ultimo minuto, le venne preferito Fabrizio Binacchi, direttore della Sede Rai di Bologna. Io che facevo parte del progetto Linea Verde con Antonella Clerici, rimasi nel programma senza la mia conduttrice e dovetti adattarmi a seguire da Roma Fabrizio Binacchi, mentre la sede redazionale si trovava ancora a Milano. La Clerici accettò la proposta di Mediaset come ripiego all’esclusione, rimasta senza spiegazioni, da Linea Verde.
Tornando all’estate del 2000 bisognava mettere in piedi La Prova del Cuoco. Il titolo che proposi venne testato con un campione di pubblico. Avremmo voluto chiamarlo Mezzogiorno di fuoco ma era un titolo già depositato da Canale 5, e non ci avrebbe mai dato il permesso di utilizzarlo. Assieme a Gustavo Verde formulammo delle proposte. Anna Moroni venne segnalata dalla stessa Antonella che era stata sua allieva per lezioni private di cucina e Beppe Bigazzi lo proposi, togliendolo a Unomattina, dove lo avevo seguito per diversi anni, in un a rubrica chiamata La borsa della spesa.
Gli sketch e le battute tra Bigazzi e la Moroni rappresentarono, per me, anche in base agli ascolti, la forza di quel programma. Si riproponevano le dispute in famiglia, attorno alla preparazione del pranzo, prima della sfida finale tra il cuoco del pomodoro e quello del peperone. Con La Prova del Cuoco, dove sono rimasto fino al 2007, possiamo dire che abbiamo insegnato alle massaie trentenni italiane a tornare in cucina e ad abbandonare i “4 salti in padella” e il “junk food”.
Il pubblico potrebbe proporre un programma?
Direi che è quasi impossibile. Nella mia vita non mi è mai successo. Che venga preso in considerazione un progetto che arrivi dal pubblico. Anche perché è difficile che venga formulato nella maniera corretta e che abbia la fortuna di arrivare alla persona giusta nel momento giusto. Un miracolo. Una volta stabilita l’idea base il progetto viene valutato economicamente, commercialmente e si fa o si dovrebbe fare, uno studio per capire quale sarebbe la sua migliore collocazione nel palinsesto, ovvero nel novero delle decide e decine di trasmissioni inserite nella programmazione settimanale e stagionale. Le stagioni per la televisione sono prevalentemente due. L’invernale che va dalla fine di agosto al maggio-giugno successivo e l’estiva che copre i rimanenti mesi.
Il Festival Sanremo è diventato il perno di tutta la programmazione
Poi ci sono gli speciali legati alle feste natalizie, alla fine dell’anno, agli anniversari, alle ricorrenze, agli eventi importanti. Sanremo per la Rai per esempio è un programma che è diventato il traino di tutto un anno di lavoro. Si va dalla preparazione del prossimo Festival e si continua a sfruttarne gli esisti per il resto dei mesi successivi. Sanremo sta diventando sempre più non una trasmissione di 5 serate ma quasi un format tv che da vita a tante altre trasmissioni satelliti, in radio e sul web, che producono introiti e consenso e che si alimentano dell’immagine del Festival, al quale ritornano in termini di seguito e di consenso del pubblico.
Senza gli introiti di Sanremo non si reggerebbe in piedi la Rai così com’è adesso. Mediaset non ha un evento paragonabile e proprio per questo si astiene dalla concorrenza in quella settimana ma anzi sfrutta anch’essa quel momento, per riproporre argomenti, cantanti, polemiche, personaggi e storie che il Festival ha messo in moto.
Talents, Realities, Serie tv, Contenitori
Mediaset ha una serie di talent show e di programmi routine, come quelli della Fortuna, la società di produzione di Maria De Filippi o come i ”reality” che di reale hanno ben poco, le quali si ripetono di anno in anno, stagionalmente, cambiando, o scambiandosi, gli ospiti tra loro. Il Grande Fratello e l’Isola dei famosi sono i due format più noti. Queste grandi serie diventano i punti di riferimento della programmazione per intercettare il massimo della pubblicità.
Quando cominciano a non intercettarla più, è arrivato il momento della sostituzione. Si tratta per lo più, vale per Rai e Mediaset, di format stranieri, acquistati per essere riprodotti, con l’ausilio di una casa di produzione che può essere italiana ma affiliata ad una holding estera. Per quel programma scelto l’emittente sosterrà i costi della produzione e le royalties per l’uso del format estero. Questa pratica ha avuto successo un po’ ovunque nel mondo occidentale, perché riduce il rischio sull’esito della trasmissione. Se ha avuto successo in Gran Bretagna e in Francia sarà possibile che lo abbia anche da noi. Vero, in parte. Ogni progetto estero viene infatti affidato a un gruppo di lavoro specializzato, che lo adatta al pubblico del proprio paese. Questo avviene ovunque, perché alcune caratteristiche culturali o abitudini, devono essere prese in considerazione dagli autori del programma, per farne un sicuro successo.
Guardiamo gli stessi format in tutto il mondo occidentale
Il meccanismo del format estero ha fatto breccia nelle grandi emittenti nazionali anche perché consente di delegare buona parte dell’organizzazione e produzione a una società esterna, liberando l’emittente da tante incombenze e rischi di natura legale e commerciale. Ti pago le royalties e ti dò un forfait per la produzione e tu ti incarichi di tutto, ma a me resta la supervisione. Ho il controllo e meno rischi. C’è anche un altro aspetto, che si può intuire, come spesso succede nel mondo, che per un business corposo da approvare siano previste tangenti a favore di chi accoglie l’affare. In fondo si tratta di una royalty in più da pagare, per l’avvio del processo di lavoro, dove i guadagni non sono pochi. Ovviamente non è regolare, soprattutto in una tv pubblica, ma difficile è scoprirlo con certezza e altrettanto ingenuo sarebbe pensare che non accada.
Cosa porta alla fine di un programma?
Ci sono programmi che, con varie formule, durano da 20, 30 e anche 50 anni. Altri che non durano una stagione intera e altri che vengono chiusi dopo una puntata. Perché?
La risposta ufficiale è facile: per i bassi ascolti. In genere però questi bassi ascolti sono dovuti a cause diverse, per le quali bisognerebbe fare un’analisi sulle responsabilità di chi ha dato vita al progetto e non ha considerato tutti gli elementi in questione. Se un programma è inadeguato per un certo spazio orario, se lo è per la sua costruzione, per l’insieme di scene, luci, intreccio narrativo, conduzione, ecc. lo si deve comprendere prima di realizzarlo.
Chi fa il mestiere di funzionario televisivo, sia un direttore o un vice direttore, un capostruttura, un autore o un analista dello share, deve poter comprendere i limiti del progetto prima che ci vengano investite risorse, tempi e promozioni. Gettare alle ortiche un progetto ponto per la messa in onda o dopo poche puntate è un danno enorme e per il quale, di solito, nessuno paga davvero per il danno creato. Emblematico il caso di cui è rimasta vittima Ilaria D’Amico, tornata in Rai dopo 15 anni ma pochi mesi sono bastati per chiudere l’avventura della conduttrice con il suo Che c’è di nuovo, per decisione del direttore Antonio di Bella. A condannare il talk show di politica e attualità sono i numeri, con ascolti risicati e share basso. L’ultima puntata si è fermata al 2,5%, nonostante l’ospitata della sempre chiacchieratissima Wanna Marchi.
Ho visto programmi bloccati mentre erano in onda gli spot promozionali. Quando ci si accorge che il budget non riesce a coprire i costi è sano farlo. Accadde negli anni ’90 con un progetto chiamato Surprise, Surprise che prevedeva la partecipazione di Gabriella Carlucci e Marco Predolin. Dopo qualche anno apparve un format inglese con lo stesso nome e poi il famoso Carramba! con la mitica Raffella Carrà.
Altri vengono bloccati perché la conduttrice era in cinta e non ce la faceva ad andare avanti. È accaduto alla stessa Clerici che dovette lasciare, molto malvolentieri, il testimone a Elisa Isoardi. Più recentemente è toccato a Mia Ceran dover lasciare Nei tuoi panni su Raidue e ne hanno approfittato per non continuare.
La nota lite a La vita in diretta
Altri chiudono perché i conduttori litigavano tra loro. In quei casi spesso succede che uno dei due abbandoni più che interrompere il programma. Famoso il caso della lite tra Alberto Matano e Lorella Cuccarini a La vita in diretta. Io stesso dovetti reggere un’intera stagione Unomattina con Eleonora Daniele e Michele Cucuzza che neanche si parlavano più. Altre volte è stato l’intervento deciso di un politico potente, un Presidente del Consiglio per esempio, che ha decretato che non si proseguisse con quei conduttori e i loro programmi. Famosi i casi di Biagi, Santoro e Luttazzi cacciati dalla Rai in seguito all’Editto Bulgaro di Berlusconi. Storica la chiusura brutale di Un due e tre, con Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, nel ’59, per le allusioni irrisorie ad una caduta del Presidente della Repubblica Giovanni Gronchi.
Famoso anche il caso della soppressione del varietà La piazzetta nel 1956, quando la ballerina Alba Arnova, andando in scena in diretta con una calzamaglia color carne, diede l’impressione, per via del bianco e nero, di essere nuda.
Non mi è mai capitato di vedere un programma chiuso dal Tribunale per plagio, in seguito a una denuncia di un’altra emittente. Ci sono stati casi di programmi interrotti per aver ospitato millantatori, che il Tribunale ha condannato in seguito a una denuncia di professionisti esterni o di società che si ritenevano danneggiate. Se un editore blocca la messa in onda di un programma c’è un motivo molto serio dietro, statene certi. Significa che andare avanti esporrebbe ad un rischio maggiore l’azienda emittente e questo nessun editore se lo può permettere.
Il pubblico giovane sta abbandonando la tv
Comunque quando un programma deve essere interrotto, al di là di tribunali e casi di salute, in genere accade perché gli ascolti non sono adeguati. La valutazione dev’essere fatta non in assoluto ma in base alla collocazione del progetto. Se hanno inserito un programma nel palinsesto di Italia1 non si può pretendere che abbia uno share competitivo con Raiuno. Le reti ammiraglie di solito vengono comparate tra loro, così Canale5 con Raiuno e Rete tre con Italia1. Grosso modo diciamo. Negli anni abbiamo visto il progressivo depauperamento di Raidue e la crescita di La7. Le altre reti tematiche aggiunte al bouquet di ogni emittente non hanno mai avuto un gran successo di audience.
Il mondo delle reti televisive è in continuo fermento e i loro pubblici di riferimento sono anch’essi variati negli anni. I giovani per esempio, anche gli adulti fino ai 35 anni, stanno abbandonando la televisione a favore della rete e delle piattaforme streaming come Netflix e Amazon prime, che offrono molto cinema, documentari, serie televisive in grado di sostituire una emittente generalista.