Il degrado urbano, la cultura del bene comune e la teoria delle finestre rotte
Con il termine degrado definiamo quel passaggio da una condizione migliore a una peggiore con la perdita dell’idea di bene comune
Degrado urbano. Con il termine degrado definiamo quel graduale passaggio da una condizione “migliore” a una “peggiore”, riferibile a qualsiasi dimensione. Parliamo quindi di un dinamismo che può avere velocità diverse, che però condivide la direzione, una direzione verso il peggioramento appunto di una condizione ben organizzata. Possiamo affermare che con degrado ci si riferisce sempre ad un cambiamento e nella fattispecie è ricorrente l’utilizzo del termine in riferimento al contesto urbano, che vede nella città un territorio sempre più saccheggiato e maltrattato.
Il rapporto fra degrado e psiche
Uno dei pionieri nello studio del rapporto fra individuo e contesto fu Gregory Bateson, secondo cui la cornice all’interno della quale avvengono le nostre relazioni, la comunicazione e più in generale dove si costruisce l’esperienza umana, acquisisce la funzione di “habitat”, cioè quel cosmo che riconosciamo nostro nel quale sappiamo muoverci e dove avviene lo sviluppo di tutti i processi maturativi innati. La relazione fra individuo e contesto assume di conseguenza una forte correlazione, che oggi più che mai vive una profonda crisi dovuta alla variabile del degrado che ne caratterizza sempre più il contesto all’interno del quale le diverse dimensioni dell’essere dovrebbero prendere forma.
Ma come si genera il degrado?
Essendo il degrado come detto prima, un processo, deve avere una dimensione spazio-temporale ben definita. In riferimento alla grande città ad esempio, prende vita appena fuori dall’uscio di casa. Già nella tromba delle scale o più spesso in quella dell’ascensore notiamo la risultanza di comportamenti degenerativi, come le scritte fatte con gli accendini o le gomme da masticare attaccate in ogni dove, per proseguire poi all’esterno, sulle nostre strade, nei nostri quartieri, dove purtroppo finisce per assumere una forma più generalizzata che conosciamo molto bene. Più difficile invece è determinare con esattezza il principio temporale del suo evolversi. Per capire il meccanismo attraverso il quale il degrado si autodetermina, possiamo riferirci alla famosa “teoria delle finestre rotte”.
Povertà e delinquenza portano al degrado
Nel 1969 il Prof. Philip Zimbardo condusse un esperimento di psicologia sociale presso l’Università di Stanford. L’esperimento consisteva nel prendere due automobili dello stesso modello e colore e abbandonarle in strada, in due luoghi diversi e lontani fra loro. La prima automobile venne abbandonata nel Bronx a New York, l’altra nella città ricca e molto più tranquilla di Palo Alto in California. Mentre la prima automobile dopo solo poche ore cominciò ad essere oggetto di azioni vandaliche e furti fino a risultare completamente distrutta nell’arco di una settimana, l’automobile di Palo Alto restò intatta. Una simile risultanza porta facili considerazioni in chiunque di noi, “il contesto sociale di povertà e delinquenza sono responsabili del degrado”.
La politica della tolleranza zero
Ma il Professor Zimbardo e sui ricercatori decisero di inserire una piccola variabile nell’esperimento rompendo i finestrini dell’automobile che era rimasta integra fino ad allora e la conclusione fu che nei giorni a seguire il processo di vandalizzazione risultò identico a quello avvenuto nel quartiere del Bronx. Una serie di esperimenti sociali simili furono condotti anche in seguito per confutare quanto una situazione di disordine e degrado alimentasse una risposta comportamentale proporzionalmente violenta e degenerativa. Negli anni ’80 il dilagare di atti criminosi e di vandalismo all’interno della metropolitana di New York portarono l’allora giunta comunale alla cosiddetta politica della tolleranza zero. Il risultato fu quello di un trend in crescita costante di tali episodi, fino a quando nel 1994 si prese in considerazione il modello della teoria delle finestre rotte.
La nuova giunta comunale dirottò parte del grande investimento utilizzato fino ad allora per i servizi di polizia e vigilanza, verso opere di pulizia delle metro e tinteggiatura delle stazioni. L’illuminazione degli ambienti e la cura degli arredi diedero una nuova immagine al contesto, fornendo così anche l’impressione di un luogo più curato e meno degradato. Da subito i reati criminosi e di delinquenza diminuirono sensibilmente come drasticamente diminuirono gli episodi di vandalismo. Con la teoria delle finestre rotte intercettiamo sicuramente uno dei meccanismi alla base della psicologia sociale che si riferiscono al degrado.
Con essa ne deduciamo che la cura delle aree verdi, la pulizia delle strade e il mantenimento del decoro urbano sono allo stesso tempo un farmaco contro la deriva sociale e un modello educativo per il cittadino, che se ben coordinato e gestito si propone anche come importante volano economico. Ma il degrado è anche figlio di un modello urbanistico e architettonico che non risponde più alla vera natura e ai reali bisogni della comunità.
La città: Un luogo non luogo
La scelta del proprio habitat o la trasformazione e l’organizzazione dello stesso sono esigenze fondamentali per l’uomo, ritrovabili già nella preistoria. La standardizzazione del modello costruttivo che si è adoperato nei moderni contesti urbani e che costituisce l’approccio architettonico di molte periferie, dove la cementificazione selvaggia e piani urbanistici impostati sempre più in funzione del modello economico basato sul consumismo e meno attenti alla funzione aggregativa, si offrono come terreni fertili dove il degrado facilmente attecchisce. Il centro aggregativo non è più la piazza, a sostituirla vi è il centro commerciale che oltre ad alimentare la spirale del cemento, diviene spazio artificiale all’interno del quale l’ individuo non riesce a trovare la propria identificazione divenendo vittima inconsapevole di un modello imposto. “Il luogo diviene non luogo”.
Il legame tra habitat e uomo
La relazione assume la stessa inconsistenza e la comunicazione finisce per soffrire dell’assenza di contatto. Il degrado è figlio di questo importantissimo legame fra habitat e uomo. Quando la dimensione dello spazio non coincide più con la vera esigenza innata di colui che lo abita, il cortocircuito ha inizio. Il non riconoscersi all’interno di esso, significa non riconoscerlo come proprio e quindi anche non rispettarlo. La cultura del bene comune deve rinascere attraverso un senso di partecipazione e di sensibilizzazione verso le tematiche urbanistiche. Questo deve avvenire con il coinvolgimento di varie categorie: Architetti, urbanisti, Psicologi, Sociologi, mondo della scuola, comitati di quartiere e mondo produttivo proprio per poter rispondere alle esigenze di chi ne dovrà beneficiare.
La teoria della finestra rotta
La politica di questi anni ha investito molto sul giustizialismo e la correttezza amministrativa da una parte e sulla repressione forte dall’altra, non considerando mai una visione laterale del problema come la teoria delle finestre rotte ci insegna. Il degrado si autoalimenta da solo, a farne le spese è il benessere del cittadino che abita quei luoghi. Sono molti gli studi che riferiscono il drammatico aumento delle depressioni e delle psicosi nei grandi centri urbani, dove la fiducia verso il prossimo e il futuro lasciano sempre più spazio ad un malessere profondo di rabbia e delusione e dove gli atti di violenza riempiono le cronache quotidiane.
Il degrado è il frutto di comportamenti disfunzionali che rispondono ad una serie di fenomeni politici, sociali e culturali, che se non interrotti dilagano nel territorio e nella coscienza di tutti noi. Rifacendosi alla nuova definizione che l’OMS ci fornisce della salute, con la quale non indica più come malato solo colui affetto da una patologia, ma come colui che non gode del benessere fisico, psichico e sociale, diviene chiara la relazione fra degrado urbano e il nostro benessere psicofisico. Anche per questo forse, iniziamo a definirci una società malata.