Il dramma Ardea e i rischi che si corrono a non curare gravi malattie mentali
Il dramma di Ardea può, nella sua tragicità, portare a una nuova attenzione nella società, al fine che episodi di questo tipo non si verifichino mai più
Ricostruiamo la vicenda
Ardea, nella tarda mattinata di una soleggiata domenica di giugno, si compie la drammatica fine di quattro persone. Il trentaquattrenne, Andrea Pignani, spara a due bambini, due fratellini (David e Daniel Fusinato), rispettivamente di cinque e dieci anni e ad un settantaquattrenne, Salvatore Ranieri. Poi, dopo essersi barricato nella propria abitazione e prima che giungano sul posto i reparti speciali del GIS dei carabinieri, Pignani si toglie la vita.
Attualmente sono in corso tutti gli accertamenti sulla vicenda, ma dalle prime ricostruzioni emerge che Pignani soffrisse di gravi disturbi psichici e che nella zona di Colle Romito, dove abitava da poco, tutti ne conoscevano l’aggressività e il suo particolare stato mentale. Restano tante le domande alle quali le autorità competenti dovranno dare risposta. Si dovrà far luce sulle circostanze dell’accaduto circa l’esistenza o meno di un nesso tra l’autore e le sue vittime. Sarà necessario verificare anche l’esatta dinamica delle uccisioni e la presenza di eventuali testimoni.
Altro aspetto importante da chiarire resta quello dell’arma utilizzata, una Beretta 7,45 in dotazione al padre di Pignani, scomparso da mesi, che lavorava come vigilante. Perché quella pistola fosse ancora in possesso della famiglia, malgrado lo stato di salute mentale di un componente, è la domanda che ci si pone; perché, visto che già in passato Andrea Pignani aveva mostrato segni di instabilità mentale (come in occasione dell’aggressione alla madre).
Un dramma senza risposte, il grande dolore nella coscienza collettiva
In ogni caso risulta davvero difficile dare un significato a quello che è accaduto. La dinamica del fatto di cronaca perde le caratteristiche di una semplice narrazione di fatti e resoconti. In questo, caso si perde il senso di ciò che è accaduto e del profondo dolore che ne deriva. Un dolore incontenibile per quei due bimbi innocenti, che su un campetto di calcio provano a riprendersi gli spazi di una fanciullezza limitata dalla pandemia. Un dramma per quel signore che con la sua bici, come tanti anziani, si era fatto carico di quel che succede nel quartiere. Quel dolore per chi rimane, e al quale è stato portato via tutto.
Un dolore che esce da quel caseggiato, entra nelle coscienze di tutti, e ci lascia carichi di un senso d’impotenza. Una sensazione classica di certi eventi, in cui la drammaticità da una parte, e la perdita di significazione dall’altra, ci proiettano in una condizione di assoluta impotenza. Si tratta del dolore che ogni volta ci spinge a trovare una spiegazione a ciò che è successo, una motivazione, o ancor peggio, a trovare a tutti i costi un colpevole diverso da colui che già si è condannato con la morte.
La ricerca dei colpevoli
Allora si punta il dito contro chi avrebbe dovuto verificare il possesso di quell’arma, contro chi seguiva dal punto di vista psichiatrico quel giovane instabile. Si arriva a mettere in discussione la legge Basaglia, con la quale, nel 1978, lo Stato italiano rivedeva l’intero sistema dell’igiene mentale. Con quella stessa legge l’individuo era di nuovo al centro e i poteri delle strutture di degenza obbligatoria, limitati. Un vorticoso susseguirsi di interrogativi alla ricerca di una responsabilità per dare sfogo al senso di smarrimento che ci assale.
Ma per sopravvivere a certe notizie l’unico modo è trasformare il dolore in qualcosa che possa evitare in futuro avvenimenti drammatici del genere. Dobbiamo chiedere con forza investimenti nuovi e mirati rispetto a un contesto sociale come quello delle malattie psichiche, che oggi resta un tabù. Un argomento troppo scomodo che si preferisce buttare sotto il tappeto. Un contesto sanitario, quello dell’igiene mentale, che non riesce a soddisfare la domanda in costante aumento.
La malattia mentale: un tratto sociale che non va più negato o ignorato
Un problema, quello della malattia mentale, del quale le famiglie si devono far carico e del quale molte di esse si vergognano. Ecco, bisogna ripartire proprio dalla visione ancora troppo distorta del disagio psichico. Bisogna considerare che dietro a esso c’è sempre un individuo che, da solo, non potrà mai farcela, e che se non adeguatamente assistito finirà solo per rinforzare il suo profondo malessere. Quel malessere amplificato anche dall’isolamento e dal rifiuto sociale.
La malattia mentale è un aspetto importante della società, aspetto che non può essere negato. Oggi più che mai la malattia mentale esige una maggiore attenzione da parte delle istituzioni. Un imperativo che emerge con forza riguarda proprio la necessità di misure volte ad affiancare non solo i pazienti, ma anche i loro sistemi familiari.
Non possiamo restare in silenzio e chiederci se l’accaduto poteva forse essere evitato. Al contrario, dobbiamo chiedere che la società prenda atto della situazione, e provveda a metter mano a un serio programma sanitario. Dobbiamo chiedere che lo Stato sia di supporto ai malati e alle loro famiglie, e che questo venga messo nelle agende istituzionali in vista del prossimo PNRR.
Sono fatti di cronaca come questo che, purtroppo, ci fanno aprire gli occhi sulle nostre gravi carenze strutturali, ma ogni volta il peso della lezione reclama un dolore esagerato come contropartita, tanto da lasciare una grande amarezza sull’accaduto. A questo, si aggiunge il dovere di riflettere sull’evidenza che prendere le dovute misure non restituirà tre vite spezzate, ma di certo potrà far sì che, in futuro, scenari simili vengano evitati.
In collaborazione con la Dott.ssa Nicoleta Beatu