Il filosofo Tommaso Ariemma: “in Occidente la nudità è umiliazione o esaltazione”
L’autore del best seller “La filosofia spiegata con le serie tv” ci parla del suo nuovo libro
Tommaso Ariemma, classe 1980, autore del best seller “La filosofia spiegata con le serie tv” professore di filosofia al liceo ma anche docente all’Accademia di Belle Arti, ha pubblicato il suo ultimo saggio “L’Occidente messo a nudo” (Luca Sossella Editore). Nell’introduzione prende spunto da quell’episodio in cui, in occasione dell’incontro tra Matteo Renzi e il presidente iraniano Rouhani, sono state coperte con dei pannelli alcune parti sensibili delle statue dei Musei Capitolini. Al di là delle polemiche, qual è il significato filosofico di questo episodio?
Questo episodio fa emergere uno dei tratti distintivi della nostra cultura: quella che ha eletto un certo modo di rappresentare la nudità a forma d’arte occidentale per eccellenza. Nel mio libro provo a cercare di spiegare come possono convivere questa forma, il nudo ideale classico, e un’altra concezione della nudità, intesa come mancanza assoluta. L’Occidente oscilla costantemente tra questi due estremi, senza soffermarsi su qualcosa che non è né perfetto, né umiliante, ma necessario: il nostro continuo essere esposti al mondo, il nostro partecipare dell’esposizione come tutte le altre cose: pietre, piante, animali. Ogni cosa dunque è esposta, ogni cosa è nuda, in un certo senso.
Nel suo libro spiega che la nudità in Occidente vive di due polarità: quella estetica ideale e perfetta, rinascimentale, e quella dell’umiliazione, subita ad esempio dai prigionieri di guerra nel Novecento, nei campi di sterminio. La nudità scrive “di chi è considerato uno scarto sociale, la vita cioè esposta alla morte”. La nudità è stata segno nella storia, come oggi, dell’esclusione politica e della perdita di dignità. Forse perché, come lei scrive, “Il nostro corpo è in relazione con ciò che lo circonda in un modo più radicale di quanto possa fare la nostra comprensione”?
Il nostro corpo non potrebbe esistere senza le relazioni di cui si nutre: in questo caso entro in polemica con una certa corrente di pensiero contemporanea che pensa che possano esistere degli oggetti indipendenti dalle loro relazioni. Invece sono le nostre relazioni con l’ambiente, con la nostra stessa sensibilità a definirci e a definire qualsiasi cosa.
Ho ripreso, e criticato, un concetto ormai famoso nella filosofia politica contemporanea: quello di “nuda vita”, coniato da filosofo italiano Giorgio Agamben. Per il filosofo, ogni dispositivo politico occidentale individua e mette al bando una vita minima, che non sarebbe degna di essere vissuta (l’ebreo dei campi di concentramento, il prigioniero del carcere di Abu Ghraib, il migrante nelle acque del Mediterraneo) . Per quanto questa riflessione sia estrema e radicale, ci aiuta a cogliere il lato oscuro di molte politiche moderne e contemporanee. La cosa che critico è che questa “nuda vita”, questa vita non degna di essere vissuta, non abbia nulla a che vedere con la nudità, ovvero con il contatto con l’altro che l’essere nudi impone. Il paradosso è che la “nuda vita” sia una negazione della nudità, come positiva, costante e necessaria apertura al mondo.
Lei dedica un capitolo alla vita vegetale, la quale è interamente esposta, è nuda nel senso che si offre completamente alla sua esistenza corporea, avendo anche un sistema nervoso distribuito su tutta la sua estensione e non diramato da un cervello centrale. Stiamo scoprendo molte cose sulla percezione e la comunicazione delle piante.
Quello della vita vegetale credo sia un buon paradigma per pensare la vita nuda in generale, una vita interconnessa e produttrice di forme. Nel testo provo a non separare questa vita dalle altre forme di vita, come quella artistica e letteraria. Comunemente, pensiamo che essere o ridursi a un “vegetale” sia un modo di annullarsi, di ridursi al minimo. Non vivere, di solito, è associato al vegetare. Invece, la nostra scrittura, la nostra immaginazione, la nostra stessa capacità di raccontare sono legati a una radice vegetale. Noi non smettiamo di fiorire, di assorbire dalla terra, di accedere alla luce come ogni forma vitale. Come ha sostenuto in un certo senso Aristotele (inevitabilmente frainteso in seguito), la vita vegetale è la base di ogni altra espressione della vita.
Lei ci parla anche di fantasmi, per noi elementi favolistici o superstizioni. Il cinema narra ancora oggi e spesso di fantasmi, cosa sono i fantasmi?
Anche in questo caso ci troviamo dinanzi a qualcosa che l’Occidente ha voluto scacciare. Senza successo, perché non possiamo fare a meno dei fantasmi. Questi ultimi non sono una forma “minima” della vita, ma ciò che ci fa accedere alle cose. I fantasmi sono le immagini che popolano la nostra mente e che rappresentano la sopravvivenza delle cose in noi, ma anche la materia sottile attraverso cui noi possiamo pensare. Non possiamo pensare senza immagini. Il fantasma, cioè l’immagine, è ciò che muove il pensiero, così come nei film o nei racconti del terrore dedicati agli spettri è il motore della storia, ciò che la innesca. Molto spesso, presi dal flusso della narrazione, dimentichiamo ciò che l’ha innescata. Mettere a nudo l’Occidente significa, in questo caso, ritornare su ciò che ci mettere in contatto con l’altro, e che invece abbiamo spesso considerato come vita minima, da temere o da esorcizzare.