Il futuro della Medicina Generale in Italia e il rapporto di fiducia tra medico e paziente
Le disparità regionali nell’assistenza sanitaria sono un tema centrale in questo dibattito e rappresentano il primo punto da risolvere

L’idea di riformare la medicina generale in Italia non è una novità, ma ora sembra essere giunta al punto più delicato. Da mesi si discute di un progetto che potrebbe segnare un cambiamento radicale nella struttura e nell’organizzazione dei medici di famiglia. Un tema questo su cui stanno lavorando da molto Milena Gabanelli e Simona Ravizza per la rubrica Dataroom sul Corriere della Sera.
Se questa riforma passerà, i medici non saranno più liberi professionisti, ma diventeranno dipendenti del Servizio sanitario nazionale (SSN). La Commissione Salute della Conferenza Stato-Regioni sta esaminando il documento, che potrebbe poi approdare sul tavolo del ministro della Salute, Orazio Schillaci. È un passo che potrebbe finalmente portare a quella trasformazione tanto auspicata da tempo, ma anche temuta da molti. Ma cosa significa veramente questo cambiamento? Perché la riforma è così controversa e quali sono i rischi e le opportunità che comporta?
Facciamo un passo indietro
Per comprendere la situazione attuale, è fondamentale fare un passo indietro. La riforma che ora entra nel vivo si inserisce in un contesto di continua incertezza. L’Accordo collettivo nazionale (ACN) 2016-2018 è stato firmato solo nel gennaio 2022, dieci anni dopo la legge Balduzzi, che avrebbe dovuto riformare l’assistenza territoriale. Ma cosa è stato fatto in tutto questo tempo? L’idea delle Aggregazioni Territoriali, che avrebbero dovuto garantire un lavoro di squadra tra i medici di famiglia, è rimasta sostanzialmente una promessa non mantenuta. Le Aggregazioni dovevano essere il motore per una sanità più efficiente e integrata, ma si sono rivelate, almeno fino a oggi, solo una “scatola vuota”.
In parallelo, il sindacato dei medici di famiglia, la Fimmg, ha bloccato ogni tentativo di riforma, mantenendo il modello della libera professione convenzionata. Questo modello, infatti, consente ai medici di lavorare in autonomia, senza vincoli di orario o di équipe. Un sistema che, se da un lato ha garantito una certa libertà professionale, dall’altro ha mostrato tutte le sue criticità: disomogeneità nell’assistenza, differenze significative nella qualità dei servizi tra le diverse regioni, e una gestione delle cronicità e delle malattie complesse che spesso lascia a desiderare.
Le disparità sul territorio: il sistema non funziona
Le disparità regionali nell’assistenza sanitaria sono un tema centrale in questo dibattito. La possibilità di organizzare la propria attività professionale in modo autonomo ha creato una realtà frammentata, in cui un medico può decidere di non seguire determinate pratiche, come le vaccinazioni, o di non lavorare in gruppo con altri colleghi. Le differenze nella gestione della salute territoriale sono enormi: alcuni medici, per esempio, fanno chiamate attive per promuovere la vaccinazione antinfluenzale, mentre altri lo fanno solo su richiesta del paziente, creando situazioni di disuguaglianza.
Dati recenti dimostrano queste evidenti disparità: solo una minoranza dei medici segue attivamente il programma di vaccinazione per gli over 65, con percentuali che variano dal 7% di medici che fanno chiamate attive, al 57% che vaccina mediamente. Eppure, l’efficacia della vaccinazione dipenderebbe proprio dalla costanza e dall’organizzazione, che oggi manca, a causa della frammentazione del sistema.
La pandemia: un punto di rottura
Il sistema sanitario italiano è stato messo alla prova dalla pandemia, e uno degli aspetti più critici è stato proprio il ruolo dei medici di famiglia. Non solo durante il picco dell’emergenza sanitaria, ma anche nella gestione della normale assistenza ai pazienti. La difficoltà nella gestione delle malattie croniche e delle fragilità, insieme alla carenza di strutture adeguate sul territorio, ha fatto emergere i limiti strutturali del modello esistente. Durante la pandemia, molti medici di famiglia si sono rifiutati di eseguire tamponi, e le visite sono state ridotte al minimo, nonostante l’enorme pressione sul sistema.
È proprio su questa base che nasce l’idea delle Case della Comunità, strutture che dovrebbero integrare l’assistenza territoriale, dotate di punti prelievo, macchinari diagnostici e un team multidisciplinare. Tuttavia, queste Case, se non gestite da medici di famiglia, rischiano di essere inutili. Ecco perché la proposta di riforma che prevede il coinvolgimento dei medici di famiglia nelle Case della Comunità è così importante: se i medici diventeranno dipendenti del SSN, potranno garantire una presenza stabile nelle strutture, contribuendo a farle funzionare.
Un cambiamento necessario
La proposta di rendere i medici di famiglia dipendenti del SSN è una soluzione che, teoricamente, dovrebbe risolvere le carenze dell’assistenza territoriale. Il medico di famiglia continuerebbe a mantenere un rapporto fiduciario con il paziente, ma sarebbe inserito in un sistema più strutturato, con orari definiti e attività condivise con altri professionisti della salute. Tuttavia, la resistenza dei medici è forte, alimentata dalla paura di perdere la loro indipendenza professionale e dalla convinzione che questo modello possa danneggiare il rapporto di fiducia con i pazienti.
La mobilitazione dei medici contro questa riforma sta prendendo piede in modo capillare. Le locandine, le e-mail inviate ai pazienti, le petizioni: tutti strumenti per sollevare dubbi e preoccupazioni sul futuro della medicina territoriale. Il messaggio principale che emerge da queste campagne è che il passaggio alla dipendenza potrebbe minare il rapporto di fiducia tra medico e paziente, rendendo la medicina meno personalizzata e più burocratica.
La politica che fa?
Il governo, intanto, sembra essere diviso sulla questione. Se cederà alle pressioni della Fimmg e ai timori dei medici, la riforma rischia di essere ostacolata o, peggio, rimandata. In caso contrario, l’Italia potrebbe finalmente iniziare a costruire un sistema sanitario più integrato e capace di rispondere alle sfide moderne. Il rischio di vedere le Case della Comunità restare vuote, nonostante i miliardi di euro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR), è concreto se il modello non verrà accompagnato da una gestione efficiente e dalla presenza stabile dei medici.
Siamo dunque di fronte a una scelta: continuare a navigare tra promesse non mantenute e sistemi inefficaci, oppure intraprendere una strada che, pur tra mille difficoltà, potrebbe portare a una sanità più equa e funzionale. Il futuro della medicina territoriale dipende da questo, e i cittadini rischiano di pagare il prezzo più alto, se la politica non riuscirà a prendere una decisione coraggiosa e necessaria.