Il mestiere di vivere, Cesare Pavese
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
“Il mestiere di vivere” è un diario che nasce il 6 ottobre 1935 e accompagna Cesare Pavese fino al 18 agosto 1950, nove giorni prima della sua morte.
Pochi giorni prima del suo suicidio, Pavese racchiude il manoscritto nella cartelletta verde in cui usa conservarlo, e gli antepone un frontespizio a matita rossa e blu con il titolo “Il mestiere di vivere”, preceduto dai termini cronologici 1935-1950 e seguito dal suo nome. L’indicazione della data finale dimostra la tragedia di Pavese: nello scriverla, ha ormai deciso di annullare la propria esistenza. Il verbo “vivere” allude al passato.
“La letteratura è una difesa contro le offese della vita”.
L’opera letteraria è la storia della disperazione, che grava su gran parte della vita dello scrittore, e della lotta contro questa.
“Non ci si uccide per amore di una donna. Ci si uccide perché un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”.
I temi dominanti sono l’amore e la letteratura e tra loro sono strettamente collegati. Immaginando due diagrammi, essi avrebbero un andamento quasi inverso: in discesa quello dell’amore e in salita quello della letteratura. Difatti quest’ultima rappresenta un sostituto o compenso per le frustrazioni arrecate dall’amore.
Delle proprie vicende amorose Pavese non racconta nulla, né annota nessun episodio, se non per cenni; registra con sensibilità i riflessi, le reazioni immediate e le riflessioni prodotte sulle sue relazioni. Da queste, il modo d’innamorarsi e di disperarsi dello scrittore appare adolescenziale. Si potrebbe parlare di un atteggiamento masochista, giacché da queste vicende amorose ne deriva l’impressione che Pavese si rivolga sempre alle donne meno adatte a realizzare il tipo di unione da lui desiderata.
Pavese è un personaggio molto sfaccettato. Nel suo diario, manifesta una varietà di umori da quello amaro, disperato, aggressivo a quello ironico, raramente sereno. Le riflessioni tra le note del diario rivelano il mondo di scrittore e quello di uomo, consegnando al lettore una meditazione sulla vita, sulla morte, sul sesso, sulla solitudine, sul dolore, sull’arte, sui sogni, sulla poesia.
Questo diario fu il consuntivo dell’anno non finito, che Pavese non finirà.
In preda ad un profondo disagio esistenziale, lo scrittore mette fine al diario e alla sua vita, tentando il gesto eroico davanti al destino, in una camera d’albergo a Torino che aveva occupato il giorno prima, dove viene trovato disteso sul letto dopo aver ingerito più di dieci bustine di sonnifero.
L’autodistruttore per Pavese è un uomo innamorato della vita che distrugge se stesso per “scoprire dentro di sé ogni menzogna, ogni viltà”; “è soprattutto un commediante e un padrone di sé” che non trascura “nessuna opportunità di sentirsi e provarsi”; è in un certo senso un ottimista che “spera ogni cosa dalla vita”.
Beffardamente, mentre testimonia con lucidità l’evoluzione di un personale mestiere di vivere, appunta in una nota del suo diario: “Ma la grande, la tremenda verità è questa: soffrire non serve a niente”.