Il mondo che non vedo, Fernando Pessoa
Il Sabato Lib(e)ro di Livia Filippi
Il prossimo anno saranno 80 anni dalla morte del poeta, scrittore e aforista portoghese Fernando Pessoa. Eppure sarebbe stato un personaggio davvero interessante da incontrare, se non altro per vedere con quale tipo di armonia, in un solo essere, che a vederlo probabilmente non gli si darebbe un soldo, piccolo e mingherlino di statura, di carattere meschino, possano essere coesistite arruffate e incastrate tutte quelle personalità, contrassegnate da diversi eteronimi.
“Lascio al cieco e al sordo
l’anima con frontiere,
ch’io voglio sentir tutto
in tutte le maniere”.
La sera, a ritorno dal lavoro, Pessoa si spoglia dei panni di un qualunque traduttore di corrispondenza commerciale estera, chiudendo fuori dalla porta quel mondo che lo mette a disagio. Si trasforma dando vita all’altro mondo, quello contraddittorio e paradossale, autorevole e dinamico della sua mente: inventa delle creature letterarie e degli stili, cerca di andare oltre alle risposte già date dagli altri alle cose, e di intuire l’inspiegabilità dell’esistenza, dagli esseri fino alle stelle… perché ci sono stelle che non vedremo mai e non toccheremo mai, eppure esistono!
Il mondo gli appare muoversi secondo regole inspiegabili e disarmoniche, di maniera ben diversa e lontana dall’armonia che il filosofo Pitagora pensava ci fosse nelle cose.
L’autore attore, in perenne crisi d’identità, in questa raccolta di poesie, con intelligenza e ironia pone al lettore infiniti e, spesso, angoscianti interrogativi, che quasi sempre rimangono irrisolti. Mette in scena delle contraddizioni esistenziali, intellettuali, politiche e poetiche con i suoi molteplici volti e personaggi, rivelandosi dolorosamente al lettore come persona assente da sé, pur mantenendo allo stesso tempo un’unità coscienziale. La scrittura in questo senso viene intesa come rispecchiamento e continuo scambio delle parti, dove l’io poetico mette in gioco se stesso come soggetto, e l’autore si istituisce in esistenza falsa, “Che poi è l’unica, la vera”. Per questo motivo a mio avviso, la chiave di lettura di questo libro è prendere come il meno attendibile, quello che appare come il più certo.
L’io poetico si sente multiplo: come se stesse in una stanza con innumerevoli specchi fantastici che deformano in riflessi falsi un’unica anteriore realtà che non è in nessuna ed è tutte; negando la conciliazione di sogno e raziocinio.
Questo frantumarsi della personalità fa pensare a una cosciente voluta distruzione dell'io, a un'anticipazione, se si vuole, dell'odierna angoscia esistenziale e paura dell'incomunicabilità.
Pessoa, lui stesso, ha composto centinaia di poesie per negare se stesso; per dire che non era nessuno, che niente valeva la pena, che tutto era finzione, compresa e soprattutto la scrittura.
L’ultima magia eseguita da questo straordinario scrittore è stata il paradosso maggiore, il paradosso ultimo, quello “post mortem”: di incontrare postumamente milioni di lettori riflessi in quel mondo che non si vede, quando gli occhi sono offuscati da lacrime per emozioni troppo forti come l’amore, la felicità, l’ingiustizia, la paura, il dolore, il sogno.