Il peso del dolore e il ruolo della speranza. Falcone e Borsellino trent’anni dopo
“Se il Paese li avesse veramente protetti, forse oggi avrebbero una celebrata vecchiaia, invece che un posto tra gli eroi patri”
Tra i compiti fondamentali dello scrittore c’è quello di essere testimone del proprio tempo. Così, in occasione dei trent’anni dalla strage di Capaci, il 23 maggio 1992, in cui morirono Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e tre agenti della scorta, Roberto Saviano ha dato alle stampe “Solo è il coraggio. Giovanni Falcone. Il romanzo” (ed. Bompiani). Sebbene l’Italia non possieda più gli scrittori eccelsi di una volta, Saviano è certamente il più adatto all’impresa. Da “Gomorra” (2006, Mondadori) in poi, il filone della criminalità organizzata è il suo autentico campo di scrittura e di riflessione. Al netto delle simpatie e delle antipatie.
Esplosione della speranza
Chi è nato tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80 del secolo scorso, se lo ricorda bene lo scorcio di quella primavera-estate del 1992. Come ci si ricorda bene di avere avuto tra i quattordici e i quindici anni, di essere stracolmi di speranza, fino a quando delle esplosioni spaventose sembrano venute apposta a seppellire tutto. Il 19 luglio 1992 fu la volta della strage di via D’Amelio, in cui morirono Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta.
Nessuno aveva mai visto una ferocia del genere in azione, pure in un paese come l’Italia, abituato alle stragi. Si trattò di eventi inauditi, a maggior ragione per noi giovani, che non ricordavamo le morti per mafia precedenti e, tantomeno, le stragi da Portella della Ginestra in poi.
Totò il terribile
Come in un buon libro sulla Seconda guerra mondiale, è inevitabile far cominciare il discorso da Adolf Hitler, dal taglio che la sua figura e la sua personalità, intrise di Male e malvagità, hanno impresso alla piega degli eventi, così Saviano, legittimamente, fa cominciare il suo discorso da Totò Riina, il capomafia corleonese in attività al tempo delle stragi di Capaci e via d’Amelio. Poiché se questa storia finisce con due esplosioni, comincia anche con un’esplosione.
Siamo a Corleone nel 1943, Totò Riina ha tredici anni e vede il padre e il fratello esplodere dopo aver raccolto una bomba degli americani, che sarebbe servita a riciclare il metallo e poi a venderlo. La ferocia di Totò Riina, ci dice Saviano, viene da lì. La sua ferocia bestiale, la sua inclinazione al male, la sua voglia di strage. Quando vedi saltare in aria tuo padre, sei capace di far saltare in aria chiunque.
La solitudine degli eroi
Ecco perché il paragone con Hitler. Ma sarebbe stato altrettanto adeguato quello con Mussolini, Franco, Stalin, Pinochet. Spesso gli uomini subiscono un destino terribile, perché da qualche parte c’è un pazzo che organizza un disegno malvagio ad insaputa dei suoi contemporanei. Anche nel nostro presente ne sappiamo qualcosa. Ora il Male può essere anche banale, come scrisse e argomentò Hannah Arendt, in relazione a Adolf Eichmann, resta che sono gli altri a subirlo. Si potrebbe dire, sulla falsariga del Canetti di “Massa e potere”, che il Potente incarna quella particolare forma di malvagità, che non gli consente di tenere in conto le sofferenze degli altri.
Nel nostro caso di due giudici, e dei loro angeli custodi in divisa, che facevano molto bene il proprio dovere e che il destino di un paese disgraziato ha trasformato in eroi. Che ha preferito piangerli da morti, piuttosto che proteggerli da vivi. Poiché, a voler essere sinceri, il punto è proprio questo ed è merito di Saviano lasciarlo emergere e sottolinearlo attraverso la narrazione degli eventi (ma è il titolo stesso del libro ad andare in questa direzione). Se Falcone e Borsellino non fossero stati oggetto di attacchi continui mentre erano ancora in vita, se il paese li avesse veramente protetti, forse oggi avrebbero una celebrata vecchiaia, invece che un posto tra gli eroi patri.
Un caso emblematico di cecità
Uno degli attacchi più significativi venne da Leonardo Sciascia, con il famoso articolo sui professionisti dell’antimafia uscito il 10 gennaio del 1987 sul “Corriere della sera” e ripubblicato nel volume “A futura memoria (se la memoria ha un futuro)” (Adelphi). Il caso è tanto più clamoroso e significativo, poiché Sciascia è stato una delle coscienze letterarie ed intellettuali della nostra nazione, durante la seconda metà del Novecento.
Insieme a Italo Calvino, agli ormai anziani Montale e Ungaretti, a Gadda, a Pasolini, a Primo Levi, a Natalia Ginzburg e Elsa Morante, a Manganelli, Landolfi e Flaiano. Si pensi a libri come “La scomparsa di Majorana”, “L’affaire Moro”, “Todo modo”, “Nero su nero” – incredibili per la profondità concettuale che spalancano davanti al lettore.
Sciascia attaccò l’antimafia, tacciandola di carrierismo e Paolo Borsellino in modo particolare. “Eroismo che non costa nulla”, scrive Sciascia all’inizio del suo articolo. Ora questo episodio macroscopico è servito a far capire questo: che le ragioni di chi lavora con il diritto e quelle di chi lavora con la letteratura, spesso non coincidono. Non solo, ma che spesso gli intellettuali non sono consapevoli di ciò che mettono in moto con le loro parole. Che Falcone e Borsellino lavorassero tanto poco a scopo di carriera è stato dimostrato dalle stragi del 1992, che Sciascia in ogni caso non vide, perché morì nel 1989.
Resta che le accuse di Sciascia sono entrate a far parte del cliché di chi, sottotraccia, continua a lavorare alla distruzione dell’eredità di Falcone e Borsellino.
Il sacrificio nel nome dell’etica
La dedica del libro di Saviano dice: “Al sangue versato che non secca mai”. Poiché lo scopo di questo libro risiede nella testimonianza. Nella capacità di tenere viva la memoria. Al pari dei testimoni sopravvissuti della Shoah e di tutti gli uomini che, nella terribile epoca contemporanea, hanno saputo tenere la schiena dritta e conservare le istanze del Bene e dell’etica. È chiaro che, in nessun modo, Saviano può reggere la dimensione di elaborazione formale o la profondità intellettuale dell’analisi di uno Sciascia o di un Pasolini.
Ma, per una volta, qui ad interessarci è la storia, l’oggetto, più che la prestazione letteraria. La vita di Giovanni Falcone, di Paolo Borsellino; il coraggio di Antonino Caponnetto. La morte di Rocco Chinnici e Carlo Alberto dalla Chiesa, di Boris Giuliano e Ninni Cassarà; il sorriso di Francesca Morvillo. La personalità a suo modo intrigante di Tommaso Buscetta, che fu il primo pentito a scoperchiare Cosa nostra dall’interno e a rendere possibile il Maxi Processo. Il grande viaggio nelle immagini di Letizia Battaglia; l’onestà intellettuale e la serietà di Claudio Martelli.
Resta la domanda, l’enigma relativo alla dimensione etica dell’eroe. Quella solitudine del coraggio cui Saviano ha voluto intitolare il suo libro. L’unica risposta ce la può fornire la filosofia. Precisamente quella conclusione della “Critica della ragion pratica” (1788) – forse la più alta elaborazione etica dell’intero pensiero occidentale moderno – in cui Kant nomina “il cielo stellato sopra di me, e la legge morale in me”. Probabilmente Falcone e Borsellino riuscivano a respirare, e a sentirsi come uomini, soltanto in un’atmosfera di questo tipo…