Il politically correct va alla (inutile) guerra delle parole
Vari musei europei, dal Prado al Rijksmuseum alla National Gallery, cambiano titoli o descrizioni dei quadri per renderli più “inclusivi”: e il Pd vuole che Montecitorio diventi la “Camera delle Deputate e dei Deputati”
Bisogna ammettere che col politically correct non ci si annoia mai. Ogni volta, infatti, che si pensa che abbia toccato il fondo, questa ideologia distopica e del tutto scollata dalla realtà inizia a scavare. L’ultima follia è una (inutile) guerra delle parole, che dà ulteriormente la misura di quella cupio dissolvi verso cui continua a correre, forse inesorabilmente, l’Occidente.
L’inutile guerra delle parole del politically correct
Partendo dal nostro giardino, paradigmatica è una proposta di legge costituzionale presentata, come riporta l’ANSA, dai due parlamentari dem Gian Antonio Girelli e Sara Ferrari. Che prevede di cambiare la denominazione di Montecitorio in “Camera delle Deputate e Dei deputati” in nome di una malintesa «parità di genere».
Perché allora non “Camera e Camero”, verrebbe da chiedersi, se tanto bisogna ridurre le battaglie per i diritti a una parodia macchiettistica. Ma in fondo è solo l’ennesima conferma che il Pd ha il senso delle priorità sviluppato come quello del ridicolo.
Un “virus” diffuso in tutta Europa
Si tratta comunque di un “virus” che, quanto pare, è diffuso per buona parte del Vecchio Continente, come dimostra un recente video di France 24. Che rileva come diversi musei europei stiano autocensurando titoli e descrizioni di opere d’arte anche di pittori importantissimi, per adottare un fantomatico «linguaggio più inclusivo». Il che, paradossalmente, nella smania iconoclasta risulta talvolta più discriminatorio della (presunta) discriminazione.
Accade, per esempio, al Prado di Madrid, che tra l’altro ha eliminato ogni riferimento al nanismo, sostituito da perifrasi che di nazionalpopolare hanno poco o nulla. Tipo «persone che soffrivano probabilmente di acondroplasia», come si può leggere oggi di due personaggi raffigurati da Diego Velázquez nel suo capolavoro Las Meninas.
Analogamente, il Rijksmuseum di Amsterdam ha espunto dai cartigli termini ora considerati «coloniali» e «razzisti», come “moro” o “maomettano”. Mentre nella National Gallery di Londra le Danzatrici russe di Edgar Degas, dopo lo scoppio della guerra tra Mosca e Kiev, sono diventate Danzatrici ucraine.
D’altronde, anche a livello linguistico i deliri woke sono figli di quella cancel culture che a sua volta nasce proprio dal politically correct. E, come ironizzava anni fa il mitico Gigi Proietti in una celebre réclame, «se ne incontrano di idiomi nella vita!»