Il ritmo della contrattazione europea accelera. In Italia, si inceppa
L’Italia invoca l’Europa per giustificare vincoli e austerità, ma la ignora quando Bruxelles indica la via della contrattazione rafforzata

Manifestazione in Campidoglio a Roma
La contrattazione collettiva in Europa ha ritrovato vitalità. Dalla Germania alla Spagna, passando per la Francia, i rinnovi contrattuali non solo proseguono, ma diventano strumento attivo per adeguare salari, accompagnare la transizione ecologica e digitale, e valorizzare il ruolo del lavoro in un’economia che cambia. L’Italia, invece, sembra osservare da bordo campo: si muove, sì, ma a una velocità troppo spesso disallineata rispetto ai propri partner continentali.
Il risultato è visibile: salari che non recuperano il potere d’acquisto perso, trattative che si arenano, un divario che si allarga. Eppure, il nostro Paese ha una lunga e consolidata tradizione di contrattazione collettiva. Secondo i dati del CNEL, più del 96% dei lavoratori dipendenti privati è coperto da un contratto nazionale. Eppure, tra la copertura formale e l’efficacia sostanziale, il divario è cresciuto.
I numeri raccontano solo una parte della storia
Non si può dire che il sistema sia immobile: il numero dei lavoratori in attesa di rinnovo è sceso a 6,3 milioni nel 2024, rispetto ai 7,7 milioni dell’anno precedente. Ma questo miglioramento numerico non riesce a nascondere l’elemento centrale della questione: i salari stagnano.
Dal 1991 al 2023, secondo Eurostat, i salari medi annui in Italia sono calati di oltre 1.000 euro, mentre in Germania sono cresciuti di oltre 10.000. Un divario che non può essere spiegato solo dalla differenza di produttività.
Il tessuto imprenditoriale italiano è ancora frammentato, il costo del lavoro resta alto per effetto di una pressione fiscale che penalizza il lavoro dipendente, e il sistema di welfare non riesce sempre a premiare chi produce valore. In questo scenario, il lavoro non riesce a essere leva di emancipazione, né strumento di progresso sociale.
Metalmeccanici e ferrovieri: due storie parallele
Il caso del settore metalmeccanico è emblematico. La trattativa per il rinnovo del contratto Federmeccanica-Assistal è in stallo: i sindacati chiedono 280 euro di aumento, la proposta datoriale si ferma a 173 euro in quattro anni. La distanza è ampia, e il negoziato procede a fatica. Va ancora peggio nelle PMI: nell’indotto metalmeccanico, il contratto Unionmeccanica-Confapi è bloccato da mesi.
Nel settore ferroviario, la situazione è persino più surreale. Il contratto nazionale è scaduto a fine 2024, ma dopo oltre un anno e mezzo le controparti datoriali non hanno ancora presentato una proposta economica. Le sigle sindacali FAST-Confsal, UGL Ferrovieri e ORSA Ferrovie hanno messo sul tavolo richieste precise: +18% salariale, riduzione dell’orario settimanale a 36 ore.
Condizioni che ricalcano quanto ottenuto in Germania dal sindacato GDL. Eppure, AGENS – l’associazione datoriale – ha rifiutato persino di aprire un confronto su quei punti, liquidandoli come irricevibili.
Anche sul fronte sindacale, non tutto fila liscio: il fronte è diviso, le piattaforme non sono sempre coordinate. Ma ciò che colpisce è l’incapacità del sistema di negoziare soluzioni, anche in settori strategici per la modernizzazione del Paese e per una mobilità sostenibile che tutti dicono di volere.
Il nodo delle filiere deboli e dei contratti “leggeri”
Si parla spesso di “contratti pirata”, ma la questione è meno esplosiva di quanto sembri. Dei 1.017 contratti depositati al CNEL, oltre 700 si applicano a meno di mille lavoratori. Il fenomeno esiste, ma non è la minaccia sistemica che spesso si evoca. Il problema vero è altrove: nei contratti deboli utilizzati in filiere spezzettate, specie negli appalti. In quei contesti, la rappresentanza fatica a farsi sentire, e i lavoratori restano più esposti.
La responsabilità non è solo delle imprese che scelgono percorsi più “economici”, ma anche di sindacati che non sempre riescono a rappresentare chi lavora ai margini, e di meccanismi istituzionali che non garantiscono efficacia universale ai contratti migliori.
Europa: modello o alibi?
Qui il paradosso si fa evidente. L’Italia invoca l’Europa per giustificare vincoli e austerità, ma la ignora quando Bruxelles indica la via della contrattazione rafforzata. La Direttiva europea sui salari minimi adeguati suggerisce proprio questo: rafforzare la contrattazione collettiva, non sostituirla con soglie minime fissate dallo Stato.
In Germania, i ferrovieri hanno strappato aumenti reali e riduzioni d’orario. In Spagna, il salario minimo è aumentato del 47% in cinque anni. In Francia cresce automaticamente. In Italia se ne discute ancora. Ma la vera questione non è la legge sul salario minimo: è la qualità e l’efficacia della contrattazione collettiva. E su questo fronte, il ritardo italiano pesa.
Uscire dal circolo vizioso: servono regole nuove e coraggio politico
La via d’uscita non è un decreto legge, né una stretta punitiva sui contratti cosiddetti “anomali”. Serve una riforma della rappresentanza e della contrattazione. Serve l’estensione erga omnes dei contratti di qualità, firmati da soggetti realmente rappresentativi, senza veti incrociati tra sigle. Serve un sistema che dia efficacia reale a ciò che viene sottoscritto, a prescindere dall’iscrizione sindacale o dalla volontà aziendale di applicare o meno il contratto.
Solo così si può garantire un salario dignitoso, senza affossare i settori più virtuosi e senza scivolare nella tentazione di una legge-muro che rischia di diventare una soglia-massimo anziché minima.
Il lavoro non può essere la variabile d’aggiustamento dell’economia. E non può continuare a essere raccontato solo come costo. È anche investimento, dignità, identità. Se la contrattazione resta ferma, la frattura sociale cresce. E con essa cresce anche la sfiducia, non solo verso la politica o i sindacati, ma verso il futuro stesso.
Alla fine, la domanda è semplice ma bruciante: vogliamo davvero cambiare rotta? O continueremo a chiedere all’Europa solo quello che ci conviene, ignorando ciò che ci chiede in termini di diritti e coesione? La risposta, più che nei documenti ufficiali, si leggerà nei prossimi contratti. E, soprattutto, nelle buste paga.