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In principio era il Logos: i Presocratici nella filosofia contemporanea

In poco più di 80 pagine, Nietzsche traccia un ritratto dei primi pensatori greci in modo completamente innovativo rispetto al passato

Sfinge dei Nassi, museo archeologico di Delfi

Sfinge dei Nassi, museo archeologico di Delfi

La cultura antica ha avuto sempre, nello sviluppo dello spirito occidentale, un ruolo di primo piano. Platone e Aristotele, Cicerone, Seneca e Plutarco, epicureismo e stoicismo.

Tra Ottocento e Novecento, viceversa, c’è stato un significativo mutamento di prospettiva. Ossia, al centro della scena sono balzati i Presocratici, i primissimi filosofi greci che Giorgio Colli definiva sapienti. Ciò per due motivi. Innanzitutto, emergono nella cultura tedesca straordinarie figure di grecisti: il poeta Hölderlin, il filosofo-filologo Nietzsche, lo storico Jacob Burckhardt.

In secondo luogo, dopo Hegel la filosofia occidentale comincia a staccarsi dalla metafisica. Pensatori del calibro di Schopenhauer, Marx, Kierkegaard, Nietzsche ne sono la testimonianza. La filosofia contemporanea si pone il problema di articolare un sapere meno astratto e più vicino alla concretezza della vita. Forniremo, dunque, alcuni spunti di riflessione su quel problema capitale che è la ripresa del pensiero dei Presocratici nella filosofia contemporanea.

Sicurezza di intuito

Il primo a suonare questa musica è stato Friedrich Hölderlin, il grande poeta amico di Schiller, Hegel e Schelling, contemporaneo di Goethe, che del rapporto con la grecità fece il fulcro della sua opera poetica e della sua ricerca speculativa, entrambe di insondabile e straordinaria profondità.

Ne rimane traccia nel dramma incompiuto “Empedocle” (1797-1800). Attraverso la figura di Empedocle, il grande presocratico di Agrigento del V secolo a. C. – anche lui venerando e insieme terribile come, nel “Teeteto”, Platone definisce Parmenide – Hölderlin si interroga sui rapporti tra l’umano, il divino e la natura, spingendosi molto al di là di ciò che il conformismo del nostro tempo definirebbe come ‘normale’.

Della grandezza di Hölderlin si accorse Heidegger e, in Italia, il nostro Giorgio Colli che volle pubblicare “Empedocle” nell’Enciclopedia di autori classici da lui diretta per Boringhieri. Ora, Colli non era uno studioso la cui tempra facesse concessioni a buon mercato. In “Dopo Nietzsche” (Adelphi) del 1974, definisce la penetrazione storica di Hölderlin nei confronti della Grecia, superiore a quella di Nietzsche.

Il martello della sapienza

Poi fu il tempo di Nietzsche, che qui consideriamo soltanto sotto l’aspetto del rapporto con il pensiero dei Presocratici. La formazione di Nietzsche fu da filologo e da grecista, non da filosofo e la sua prima opera, la “Nascita della tragedia” del 1872, si interroga, con grande pregnanza e raffinatezza, sul rapporto tra dionisiaco e apollineo all’interno della tragedia classica.

Cultura tragica e cultura presocratica sono due ambiti appaiati e l’anno successivo, nel 1873, il giovane pensatore compone un’opera, la “Filosofia nell’epoca tragica dei Greci”, che – benché rimasta inedita durante la vita di Nietzsche – è il degno pendant del lavoro sulla tragedia.

Il livello è straordinario. In poco più di ottanta pagine, Nietzsche traccia un ritratto dei primi pensatori greci in modo completamente innovativo rispetto al passato. Ossia, non più come timidi precursori della grandezza filosofica di Socrate, Platone e Aristotele, ma come portatori di una grandezza e di una originalità proprie, che possono dire molto al nostro tempo, anche dal punto di vista umano e biografico.

Il Nietzsche maturo, quello successivo a “Umano troppo umano I”, romperà con l’ispirazione derivatagli da Schopenhauer e Wagner, che avevano illuminato la sua gioventù. Tuttavia, il rapporto con la cultura tragica e sapienziale, rimarrà centrale anche nella sua riflessione matura.

In luoghi centrali di “Al di là del bene e del male” (1886) e del “Crepuscolo degli idoli” (1888), egli si definirà come l’ultimo discepolo del dio Dioniso. L’ultima frase di “Ecce homo” (1888) – che è possibile considerare come l’ultima parola di tutta la sua opera – dice: “- Sono stato capito? – Dioniso contro il Crocifisso…” (ed. it. Adelphi, p. 137) .

Dioniso è, dunque, il perno su cui Nietzsche fa leva per la sua operazione di trasvalutazione dei valori cristiani e moderni. Ciò sarebbe stato impensabile senza le potenti suggestioni di Eraclito ed Empedocle.

I Presocratici nella foresta nera

Se Heidegger è stata una figura di pensatore straordinaria lo deve anche ai Presocratici. Fino a “Essere e tempo” del 1927 – che si apre con una citazione dal “Sofista” di Platone – a dominare, nel suo pensiero, sono Platone e Aristotele (almeno per quanto riguarda la Grecia). Poi avviene la celebre svolta e il pensiero di Heidegger si fa più mistico, sapienziale, enigmatico.

I corsi universitari e gli scritti che Heidegger dedica ai Presocratici sono moltissimi. Soprattutto ad Anassimandro, Eraclito, Parmenide. Il logos (ragione, discorso) di Eraclito e la aletheia (verità) di Parmenide gli garantiscono un accesso alla verità dell’essere, non più intesa in senso metafisico, ma come dimensione primaria e fondamentale dell’accadere di tutte le cose.

Oltre la notte del mondo tecnico, la parola poetica di Hölderlin, le fiammeggianti intuizioni filosofiche di Nietzsche – “quel Nietzsche mi ha distrutto!”, ripeteva a familiari ed amici – le parole e i frammenti degli antichi sapienti greci indicano, al pensatore di Friburgo, la strada del futuro.

Non a caso, nello scritto intitolato “Martin Heidegger ha ottant’anni”, del 1969, Hannah Arendt disse che nel pensiero di Heidegger soffia un vento che non appartiene alla nostra epoca.

In Italia

Due maestri del pensiero italiano contemporaneo come Giorgio Colli ed Emanuele Severino hanno fatto della riscoperta del pensiero dei Presocratici il fulcro della loro opera filosofica.

Colli ha lavorato sul terreno storico-filosofico e storico-filologico con ineguagliata profondità. Da “La natura ama nascondersi” (Adelphi) del 1948, a “La nascita della filosofia” (Adelphi) del 1975, a “La sapienza greca” (Adelphi) del 1977-80, pubblicata in tre volumi, rispetto agli undici previsti, per la prematura scomparsa del filosofo nel 1979.

Ma anche in un’opera come “Filosofia dell’espressione” del 1969, dove il taglio è teoretico, la sapienza dei Presocratici trasuda da tutti i pori, non solo nelle pagine storico-ermeneutiche finali. Particolarmente per ciò che riguarda l’applicazione di alcune delle opzioni logiche dell’antico pensiero filosofico greco.

In Severino, viceversa, l’approccio è esclusivamente teoretico. A partire dallo scritto che apre “Essenza del nichilismo” (Adelphi) del 1972, quel “Ritornare a Parmenide” che può essere considerato il manifesto del suo pensiero. Severino recupera la concezione dell’essere di Parmenide e la necessità di Anassimandro per oltrepassare la metafisica, analogamente ad Heidegger. I pensatori più antichi e arcaici lo guidano nella negazione del divenire, inteso come scaturigine del nichilismo dell’Occidente.

Affermare che le cose, gli enti, gli essenti escono dal nulla e ritornano nel nulla, nascono e muoiono, significa affermare che sono nulla. Perciò bisogna riconoscere l’eternità dell’essere e degli essenti che lo costituiscono, come unica prospettiva adeguata al destino della verità. Nelle opere da “Destino della necessità” (Adelphi) del 1980 ad “Oltrepassare” (Adelphi) del 2007, le concezioni di Parmenide e Anassimandro, e anche di Eraclito, vengono sviluppate in tutte le loro conseguenze, fino a condurre alla visione della Gloria della Gioia, culmine delle concezioni di Severino relative al destino della verità.

Postilla conclusiva

Ormai sulla soglia della vecchiaia, Heidegger scrisse una volta ad Hannah Arendt: “Nel frattempo tre soggiorni in Grecia compiuti con Elfride – in parte in crociera, in parte a Egina – mi hanno manifestato una cosa, ancora non abbastanza pensata, che cioè la A-Letheia, non è affatto una semplice parola, e neppure l’oggetto di una riflessione etimologica, ma piuttosto la potenza ancora dominante della presenza di tutte le essenze e le cose. E nessun im-pianto può occultarla”. (ed. it. Einaudi, p. 117, lettera del 6 ottobre 1966). Da non dimenticare che Aletheia è la parola di Parmenide che esprime la verità dell’essere e che impianto è il modo in cui Heidegger designa la tecnica contemporanea.

La parola dei sapienti greci, dunque, come spazio luminoso in grado di aprire il futuro. Ecco il motivo dell’intramontabile fascino che continuano a trasmettere i Presocratici.