IVA su o IVA giù. Misure imprevedibili. La politica del “chissà chi lo sa”
È successo anche stavolta. Il balletto delle indiscrezioni e degli annunci, più o meno smentiti. Noi li votiamo: i partiti fanno quello che gli pare
Lo abbiamo appena visto: l’esecutivo di turno si riunisce per tirare fuori una manovra finanziaria e non si sa mai che cosa diavolo ne uscirà. Aumenteranno l’IVA? Ridurranno davvero il “cuneo fiscale”? Su chi e su che cosa si abbatteranno i tagli della spesa pubblica? Fino all’ultimo istante non è dato saperlo. E oltre ai danni specifici ce n’è un altro, forse ancora più grave, che tende a sfuggire.
A forza di vivere questo tipo di situazioni, da spettatori impotenti che alla lunga non hanno neanche più voglia di guardare, è sopravvenuta l’abitudine. L’assuefazione. Salvo rare eccezioni, non ci facciamo più caso.
Sbagliatissimo.
Questa totale incertezza, che trasforma l’azione di governo in una specie di lotteria, è il contrario di ciò che è giusto. Per essere davvero democratico, infatti, il rapporto tra elettori e partiti deve basarsi sulla chiarezza. Tendenzialmente, sulla massima chiarezza.
Le linee di politica economica, in particolare, vanno conosciute in anticipo, e in dettaglio: in modo che il voto sia dato per realizzare quelle determinate misure, o quantomeno per discostarsene il meno possibile. E solo come eccezione, anziché come prassi corrente.
Nella realtà italiana, e non certo da oggi, accade l’esatto opposto. Il voto è sempre di più una delega in bianco. Ovvero una scommessa. Una puntata aleatoria che scivola ai limiti del gioco d’azzardo: e si sa che nel gioco d’azzardo ben difficilmente sono i giocatori quelli che vincono. Di regola vince il banco. Ossia, fuor di metafora, il Potere. L’establishment. La “casta” (con le virgolette, o senza? Fate voi).
Pragmatici? No: traffichini
Questo degrado ruota agevolmente su due cardini: il primo è che i partiti, con la comoda scusa del venir meno delle ideologie, non hanno più delle identità stabili e inequivocabili. Detto in maniera garbata, sono diventati delle entità fluttuanti e in perenne divenire. Detto in versione più spiccia, sono talmente indaffarati a farsi i cavoli loro – tra rivalità interne e condizionamenti esterni – da essere pronti a riposizionarsi di continuo. Acchiappata la loro fetta, o fettina, di consenso popolare, se la cucinano come gli pare. Quella che doveva essere una robusta bistecca diventa un pallido hamburger. Un paninaccio da fast food. Nei casi peggiori, ma tutt’altro che infrequenti, una polpetta avvelenata.
Il secondo, sciaguratissimo cardine è l’abuso della libertà costituzionale che permette ai singoli deputati e senatori di riposizionarsi a piacimento nel corso della legislatura. Anche più di una volta. “Ogni membro del Parlamento – stabilisce l’articolo 67 della Suprema Carta – rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”.
Una facoltà, anche qui, che dovrebbe essere utilizzata solo in casi straordinari e che invece è diventata la norma. Giusto ieri il Fatto Quotidiano ha sparato le cifre in prima pagina e a caratteri cubitali: “I cambiacasacca verso quota 1000”. Nei settant’anni di storia repubblicana? Macché. Negli ultimi dieci anni.
La conclusione dovrebbe essere chiara, a questo punto. Invece di lamentarci solo nelle conversazioni private o nelle sfuriate online, per poi ricadere nella solita trafila del voto al “partito del cuore” o a quello che non ci convince più ma che ci appare comunque “il male minore”, bisogna ribellarsi in maniera pubblica e sistematica. Tornando a essere esigenti. E facendo sapere ai partiti e ai loro singoli esponenti che siamo determinatissimi a inchiodarli alle loro responsabilità.
Chi rinnega puntualmente il mandato elettorale appellandosi all’alibi delle necessità e delle emergenze non è un povero cristo che è stato costretto a barcamenarsi sui malgrado. È un traffichino pronto a qualsiasi giravolta. Un truffatore della serie “prendi i voti e scappa”. Un losco personaggio che va chiamato, e liquidato, per quello che è davvero: un traditore.