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Karl Kraus, un veggente di un secolo fa

Ciò che Kraus ha capito è che, con lo straordinario potenziamento dell’industria bellica, con l’applicazione sistematica della tecnica agli armamenti, il livello di disumanizzazione, di alienazione e di impoverimento dell’esperienza è cresciuto fino a rendere l’umanità irriconoscibile

Karl Kraus, scrittore austriaco

Karl Kraus, scrittore austriaco

Karl Kraus (1874-1936) fu un autore di grande importanza nella letteratura di lingua tedesca della prima metà del Novecento. La sua diffusione in Italia, tuttavia, non è paragonabile a quella di altri scrittori tedeschi o mitteleuropei, Kafka e Thomas Mann, ad esempio, o Rilke e Joseph Roth.

Scuola di inattualità

Della sua importanza era, in ogni caso, pienamente consapevole quel grande germanista che fu Cesare Cases. Il problema, con Kraus, è la difficoltà del suo tedesco. Il “fidanzato” della lingua tedesca, come egli stesso si definiva, aveva un rapporto profondissimo con la lingua in cui scriveva le sue opere, e poi con Goethe, Schiller, Nietzsche, Lichtenberg, Platen, Nestroy, Jean Paul.

Kraus era uno scrittore satirico: secondo Elias Canetti (1905-1994) – uno dei suoi grandi discepoli – l’unico autore di lingua tedesca a poter stare nella ristretta cerchia di nomi dei grandi scrittori satirici della letteratura europea, in compagnia di Aristofane, Giovenale, Quevedo, Swift e Gogol.

Ossia, Kraus scriveva per attaccare: la borghesia liberale della Vienna di inizio Novecento, come le alte sfere del potere austro-ungarico e la stampa, in particolar modo, che di quei poteri era la cassa di risonanza. Allo stesso modo in cui avviene oggi.

Racconta ancora Elias Canetti – sia nei saggi che nell’autobiografia – come le sue letture fossero eventi di una potenza e un’atmosfera uniche ed inimitabili. La sua influenza, anche stilistica, su grandi pensatori come Benjamin e Adorno fu netta ed inequivocabile. A legarli era il messianismo ebraico, un’idea di redenzione che, in Benjamin e Adorno – anche grazie a Brecht e Horkheimer – si fuse con il marxismo.

Il criticone

Così, quando l’epoca diede prova della sua incredibile potenza distruttiva, trovò Kraus pronto. Alla Prima guerra mondiale e al nazismo, inizialmente, Kraus rispose con il silenzio. La sensibilità storica del terribile Karl era troppo sviluppata, perché egli non cogliesse l’enorme divario rispetto alle piccole-grandi meschinità della borghesia viennese, ai compromessi di cui liberalismo e democrazia hanno bisogno per sopravvivere (ed è per questo genere di ragioni, che la lettura degli scritti di Kraus continua ad essere, ancora oggi, tanto istruttiva).

Il passo successivo al silenzio, furono due dichiarazioni programmatiche uscite su “Die Fackel”(“La Fiaccola”), la rivista che Kraus diresse per più di trent’anni – dal 1899 fino alla morte nel 1936 – prima con uno sparuto gruppo di collaboratori e, poi, interamente da solo.

I due testi in questione sono: il discorso “In questa grande epoca” (di cui esiste ora un’edizione italiana a cura di Irene Fantappiè per Marsilio), uscito alla fine del 1914, ossia dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale; la poesia “Non si chieda”, concentrato di potenza apocalittica che la letteratura europea ha conosciuto in pochi casi, uscita nel 1933, dopo la presa del potere di Hitler e ammirata da Benjamin e da Brecht (è possibile leggere la poesia di Kraus nella nostra lingua, commentata, alla fine del volume di J. Franzen, “Il progetto Kraus”, ed. it. Einaudi).

Poi venne il momento delle grandi opere. Per chi pensa che la letteratura debba essere, anche e soprattutto, interrogativo bruciante rispetto ai drammi e agli enigmi posti dalla realtà, non potrà che sentire e intuire come le grandi opere di Kraus siano su di uno stesso piano con i capolavori di un Proust, di un Joyce, di un Musil, di un Rilke, di un Montale, di un Kafka, di un Thomas Mann, pure tanto più noti e conosciuti.

Come risposta alla Prima guerra mondiale, Kraus compose il dramma satirico “Gli ultimi giorni dell’umanità”, la cui edizione definitiva è del 1922 e che, in italiano, è stato curato – per Adelphi – da Ernesto Braun e Mario Carpitella. Come reazione all’avvento del nazismo al potere, Kraus scrisse il pamphlet “La terza notte di Valpurga”, curato – in italiano – da Paola Sorge per Editori Riuniti.

A proposito di quest’ultima opera devono essere fatti, in questo contesto, tre rilievi preliminari. In primo luogo, Kraus scelse di non pubblicare “La terza notte di Valpurga”, che rimase inedita fino al 1952, perché probabilmente avrebbe potuto costargli la vita.

In secondo luogo, va osservato che il titolo viene dal “Faust” di Goethe, in cui ci sono due scene che hanno ad oggetto la notte di Santa Valpurga, il sabba delle streghe germanico. In terzo luogo, l’opera – composta nel 1933 – dimostra come fosse possibile capire la natura del nazismo fin dall’inizio, come notato anche da J. Franzen nel suo “Il progetto Kraus”.

Verso l’ignoto

Oggi abbiamo di fronte due conflitti importanti: la guerra tra Russia e Ucraina e quella tra Israele e Palestina. Ossia, in un contesto, come quello internazionale odierno, in cui di nuovo torna a profilarsi il rischio di un terzo conflitto mondiale e, eventualmente, di una guerra atomica – mai sperimentata prima, in tutta la sua potenza, dall’umanità – sono “Gli ultimi giorni dell’umanità” ad interessarci particolarmente.

Alla fine dell’edizione italiana degli “Ultimi giorni dell’umanità”, pubblicata da Adelphi, troviamo un saggio di Roberto Calasso (1941-2021) intitolato “La guerra perpetua”, poi raccolto nel volume dello stesso autore dal titolo “I quarantanove gradini” (Adelphi 1991). Sulla scia di grandi interpreti come Walter Benjamin ed Elias Canetti, Calasso sottolinea come Kraus sia stato tra i primi a capire cosa si fosse messo in moto nel 1914.

L’altro autore fondamentale, sotto questo punto di vista, è Ernst Jünger (1895-1998), particolarmente nel grande saggio del 1930 dal titolo “La mobilitazione totale” (in italiano nel volume “Foglie e pietre”, Adelphi), ma anche in opere come “Nelle tempeste d’acciaio” (1920, ed. it. Guanda) e “L’operaio.

Dominio e forma” (1932, ed. it. Guanda). Le grandi interpretazioni di Heidegger sulla tecnica come im-posizione e impianto e di Adorno e Horkheimer sulla dialettica dell’illuminismo e sull’industria culturale, verranno soltanto dopo.

Ciò che Kraus ha capito è che, con lo straordinario potenziamento dell’industria bellica, con l’applicazione sistematica della tecnica agli armamenti, il livello di disumanizzazione, di alienazione e di impoverimento dell’esperienza è cresciuto fino a rendere l’umanità irriconoscibile. Questo processo è destinato a non avere fine.

Le guerre del passato, che terminavano con una pace, sono consegnate alla storia e alla memoria. La guerra tecnologica è diventata guerra perpetua, da quando “personaggi da operetta recitarono la tragedia dell’umanità”, come si dice nella Premessa agli “Ultimi giorni dell’umanità”. Non è necessario un grande sforzo interpretativo, per capire quanto ciò sia valido ancora oggi…